drenge album

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di Antonio Vivaldi

Quando qualcuno dice che il rock è morto, gli allunga la vita. Lo sostenne verso il 1985 Sting e con la sua stupida sicumera regalò al rock un paio di secoli di buona salute; ne fece oggetto di dibattito tre anni fa il New Musical Express e gli intervenuti espressero concetti tipo “beh, sì, no, forse”, dopodiché il rock dei Black Keys sbancò in tutto il mondo. Di sicuro, nell’ambito della musica d’oggi il rock ha perso le sue percentuali da elezione bulgara anni ’70, visto che a insidiarlo ci sono hip-hop, elettronica, nu-soul, alt-folk e varie permutazioni di questi e altri generi. Alla fine però, tanto per fare un esempio, se vogliamo descrivere la fusione di suoni ambient e industriali di un gruppo come i These New Puritans ci viene comodo parlare, magari in senso lato, di rock. Quando si arriva ai Drenge, invece, non c’è dubbio alcuno; i due fratelli Eoin e Rory Loveless suonano rock e, come si soleva dire in Arcadia, non ci sono cazzi. Il loro album d’esordio  è una sequenza di canzoni secche, efficaci, immediate, perfette illustrazioni di un’attitudine sfrontata e della più classica fusione di rabbia e ormonalità. Detto ciò, potremmo immaginare che i due ragazzi inglesi, appena più che ventenni, arrivino da un quartiere difficile di Londra o da qualche grigia città industriale. Invece sono di Castleton, pittoresco paesetto circondato dal Peak District National Park. Il rapporto con il gentile luogo d’origine sembra conflittuale, visto che nel video di Backwaters è fra verdi colline che i nostri si dedicano a sfasciare a martellate un’automobile e visto che l’album inizia con queste parole: “Ho trovato un uccello sul pavimento/ Era coperto di sangue”. Però è come se i due volessero fare un po’ di scena e giocare a sembrare cattivi perché sarebbero contenti di  esserlo. In realtà, e anche a dispetto di titoli quali Gun Crazy o Bloodsports, il disco comunica soprattutto un’energia positiva e rincuorante, confermata dall’entusiasmo suscitato dalle esibizioni live. Si è detto che i Drenge hanno come modelli celebri formazioni a due come White Stripes e Black Keys (loro sono d’accordo sui primi ma non sui secondi – v. l’intervista per questo sito) ed è in effetti vero, ma il quadro è più composito di così, visto che Face Like A Skull ha durezza e fisicità in stile Queens Of The Stone Age   e il ritmo pulsante e pop di  Bloodsports porta invece verso i Franz Ferdinand. Dopo uno strano e forse irrisolto episodio simil-noise (non a caso s’intitola Let’s Pretend), il disco si conclude con una classica ballata britpop alla Blur, dove i nostri si ricordano di voler essere dei duri e si accomiatano così: “Non me ne frega un cazzo della gente innamorata/ Non mi fanno incazzare/ Mi fanno venire voglia di andarmene”.  Forse il loro fascino e la loro specificità sta proprio in questa ‘simpatia nella cattiveria’, un meraviglioso equilibrio difficile da mantenere. Una volta tanto non sembra fuori luogo la celebre esortazione dylaniana: “Possiate rimanere per sempre giovani”.  

7,4/10

 

Per l’intervista ai Drenge, v.

https://www.tomtomrock.it/2-non-categorizzato/202-drenge.html 

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Drenge – Face Like A Skull

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