BobDylanShadows

BobDylanShadows

di Giovanni Porta

Immaginiamo lo Studio B della Capitol. C’è un ingegnere del suono, Al Schmitt, 21 Grammy Awards sulle spalle, e gli viene detto che “Io non voglio vedere microfoni in giro. Solo il mio, quello in cui canto”. Al chiama a raccolta l’esperienza di 60 anni di lavoro e mette il microfono al centro e intorno la chitarra acustica, il contrabbasso, una batteria ridotta all’essenziale, la chitarra elettrica e la pedal steel. Tutto deve essere registrato live, senza cuffie e senza sovraincisioni. Tutto deve essere registrato così come si sente in quello studio. E’ così che Bob Dylan ha voluto per il suo nuovo album, Shadows In The Night, la sua personale rilettura di brani più o meno oscuri, presi dal Great American Songbook  e che hanno in comune il fatto di essere stati incisi, qualcuno più di una volta, da Frank Sinatra.

httpv://www.youtube.com/watch?v=Pxo6dUjnwlA

Come Dylan ha detto in una magnifica intervista a AARP, la rivista dei pensionati alla quale ha anche regalato 50.000 copie del cd perché venga dato ai lettori, non si tratta di un album di cover: il solo pensiero di fare cover di Frank, lo metteva in imbarazzo, aggiungendo  che vedere  il proprio nome accostato a quello di Frank, lo sentiva come  un grande privilegio. Di ogni canzone esistono due o tre registrazioni, per un totale di una ventina brani fra i quali Dylan ha scelto i 10 che costituiscono questo lavoro,  la cui idea, a leggere l’intervista, vagava nella sua mente sin dalla fine degli anni ’70, quando ebbe modo di ascoltare Stardust,  la raccolta di standard di Willie Nelson.

Dylan ci ha insegnato a non aspettarci mai qualcosa che rassomigliasse all’ultimo lavoro, qualcosa che battesse la strada della tranquillità; ogni album arriva (o arrivava, almeno prima di internet….) nelle case, senza che ci possa essere il benché minimo segno anticipatore; e se questa volta può sorprendere il tipo di materiale su cui ha lavorato, apparentemente distante dalle sue radici (ma sarebbe un bell’argomento su cui dibattere, quello della reale e definitiva definizione di “sue radici musicali”: chi ha seguito le sue trasmissioni radio ha ben chiaro che Dylan è una specie di catalogo generale della musica americana vagante….), ciò che stupisce è quanta attenzione e quanto spazio egli abbia dato al desiderio di spiegare come e perché si sia avvicinato a quelle canzoni particolari. Ha lungamente parlato del tipo di approccio  avuto nella scelta dei brani  e del suo desiderio di cantare ‘alle’ persone ( e non ‘per’ le persone) e della musica che ha accompagnato il suo avvicinarsi al mondo della musica, del suo stupore quasi magico quando, ragazzino ancora, ascoltò Uncloudy Day degli Staple Singers.

httpv://www.youtube.com/watch?v=tt1BBubMHzM

Quello che può sorprendere è sentirgli dire che trova molto più facile cantare I’m A Fool To Want You che Queen Jane: questa può essere datata, dice, l’altra no perché ha che fare con i sentimenti più profondi dell’uomo; e aggiunge “…in queste canzoni non c’è neanche una parola che non sia sincera. Sono canzoni eterne… (…) Noi fronteggiamo  la distruzione della vita e queste canzoni parlano proprio di questo”.

Poi, quando si ascolta un qualunque lavoro di Bob, la voce. E qui ci sarebbe da aprire un capitolo lunghissimo sul quale ognuno avrebbe da descrivere le sensazioni provate e rivissute ogni volta, in riferimento a questo o quel periodo del lungo percorso di Bob. Ma questa voce, anche quando è incerta sul raggiungere o tenere una nota, parla realmente di sconfitte e partenze, di ritorni e di reincontri, di desideri e di sogni, di lacrime e di giorni passati. E del tempo che è andato e che non ritorna. E ogni canzone, poi alla fine, quando la puntina lascia l’ultimo solco (perché questo album andrebbe ascoltato ‘solo’ su vinile), lascia un alone di consapevolezza degli errori fatti, dell’essere stato anche un clown, di aver colto che è arrivato il momento di cercare un riparo che ci allontani dal vento che sferza la vita. E se anche c’è il voler ribadire che l’amore è l’unica forza che possa farci sopravvivere e che possa  dare un senso alla vita, c’è poi la luce del cielo che guida e accoglie.

httpv://www.youtube.com/watch?v=6S7nTLeMdAk

Credo che ascoltare That Lucky Old Sun e cogliere lo spirito diverso rispetto a quello con cui la propose nel tour con Tom Petty, dica chiaramente che oltre 30 anni sono passati e che ogni nota di quella voce, ogni sospiro e respiro ad ogni pausa, rivela quanto tempo e quanto spazio si sia messo fra la rabbia di allora e la consapevolezza di oggi.

L’album è diretto, breve, secco per quello che vuole dire e essenziale in ogni esecuzione; non c’è spazio per gli strumenti (salvo una maggiore presenza della pedal steel, finalmente udibile  ̶  a differenza di cio’ che avviene nei concerti);  tutto deve essere concentrato sulla canzone e sulla voce. E appena svanisce l’ultima nota, vien voglia di riascoltare tutto di nuovo, come per ripassare la propria vita in meno di 40 minuti.

8,5/10

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Le recensione di due recenti uscite ‘dylaniane’:

https://www.tomtomrock.it/recensioni/606-bob-dylan-the-band-the-basement-tapes-complete-sony-2014.html

https://www.tomtomrock.it/recensioni/621-lost-on-the-river-the-new-basement-tapes-electromagnetic-recordings-harvest-2014.html

 

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