Intervista TaxiWars

Il jazz cubista dei TaxiWars di Artificial Horizon.

Il jazz non è affatto morto, si è evoluto. In modo silenzioso, tanto per citare Miles Davis, e senza attrarre eccessivo clamore ha creato molteplici sinergie con altri generi musicali. Ma rappresenta tuttora la più credibile colonna sonora per l’epoca turbolenta che stiamo vivendo.

TaxiWars - Artificial Horizon

I TaxiWars (dei quali è uscito da poco Artificial Horizon) sono stati giustamente descritti come una band che integra testi, poesia e jazz con un’intensità rock. La loro formazione è costituita dall’ex frontman dei dEUS Tom Barman, dal sassofonista Robin Verheyen, da Nicolas Thys al basso e Antoine Pierre alla batteria. Il loro sound è stato definito “jazz cubista”, etichetta tutto sommato azzeccata se si considera che persino Miles Davis in Blues For Pablo riconobbe quanto la sua musica fosse in debito verso lo stile pittorico di Pablo Picasso.

Dai dEUS ai TaxiWars

Sì, sembra proprio che i TaxiWars si siano laureati con lode presso l’università di Miles Davis che fece da precursore nell’indicare nuovi percorsi e abbattere le barriere tra jazz classico ed elettronica, musica rock e pop e, a fine carriera, persino hip hop. Altri illustri esempi di riuscita contaminazione tra jazz e rock/pop si trovano nella collaborazione tra Joni Mitchell e Charles Mingus, nell’album Small Change di Tom Waits oppure nell’esperimento Jazzmatazz degli anni Novanta, per citarne qualcuno.  

I TaxiWars appartengono a questo movimento di pionieri che sentono il bisogno di oltrepassare i confini. Ho visto i dEUS dal vivo a Roma nel 2005. C’è una canzone nel loro repertorio – Instant Street – con un assolo di chitarra finale talmente suggestivo che a un certo punto vorresti non terminasse mai. Basta ascoltare alcuni degli assoli di sax di Robin Verheyen in uno qualsiasi dei tre album dei TaxiWars per provare la stessa sensazione.   

I modelli di Tom Barman

Nel periodo in cui Nick Cave pubblicava Grinderman e Dig, Lazarus, Dig!!!, Tom Barman ebbe l’opportunità di porgli una serie di domande in un’interessantissima intervista disponibile su YouTube. In quell’occasione Nick Cave rivelò che la sua transizione come strumentista da pianoforte a chitarra aveva sprigionato un inaspettato potenziale nella sua tecnica compositiva, permettendogli di scoprire qualcosa di completamente nuovo in se stesso. La mia impressione è che questo avvicinamento al jazz e la partnership con Verheyen abbiano consentito a Barman di reinventarsi in maniera altrettanto incisiva.

La discografia dei TaxiWars

La loro discografia comprende già due lavori, TaxiWars del 2015 e Fever del 2016. Alcuni nuovi brani inclusi in Artificial Horizon come They Tell You You’ve Changed e On Day Three sono forse più intimisti e melodici rispetto alla produzione precedente. Mentre altri come Drop Shot e Sharp Practice sono più orecchiabili e diretti. Ciononostante i tre album mantengono una loro coerenza musicale.

Un giorno forse verranno visti e considerati come una Trilogia.

TaxiWars - Artificial Horizon

Un’intervista a Tom Barman e Robin Verheyen

Tom, prima ho menzionato la tua splendida intervista a Nick Cave proprio quando stava pubblicando Dig, Lazarus Dig!!!. Ritieni che la sua tecnica compositiva del periodo “Grinderman” abbia in qualche modo influenzato il tuo approccio ai testi per quanto riguarda il repertorio dei TaxiWars? Un brano in particolare – Go Tell The Women – mi ricorda i tuoi testi sia in Bridges, dal precedente album TaxiWars, sia in Safety In Numbers dal nuovo album.

Tom Barman: Nick Cave, proprio come Dylan, Beefheart, Will Oldham, Joni Mitchell, Leonard Cohen e molti altri mi ha insegnato che un particolare tipo di parola impoetica può essere utilizzata e sortire un effetto straordinario in un testo musicale. Ad un certo punto, dopo anni in cui scrivi testi di canzoni, ti viene naturale cercare nuovi modi per dire le cose, e anche di usare una certa dose di humour. Pensa soltanto a Dylan e alla sua “organizzazione benefica detraibile dalle tasse” in Ballad Of A Thin Man! Può darsi che tu abbia sentito la parola “i matematici” in un testo di Nick Cave. Ma non è stato il primo a usare quella parola! E questi autori di canzoni, sono tutti delle influenze. E così lo sono autori fiamminghi e olandesi come Hugo Camps, Gerard Reve e Thé Lau.

 Alcune delle vostre nuove canzoni in Artificial Horizon indicano un’evoluzione verso un format più sofisticato e intimista. Irritated Love sembra essere l’equivalente jazz, sebbene meno romantico, di Into My Arms di Nick Cave. Il jazz ti mette mai in un mood sentimentale? Provi mai il desiderio di concepire un giorno una classica canzone d’amore jazz?

Tom Barman: Cos’è una classica canzone d’amore jazz? Io rispondo alla musica che ho davanti a me. Ogni accordo, ogni strumento mi conduce da qualche parte. È un semplice fenomeno di azione/reazione che non voglio veramente analizzare. Trovare una melodia è di solito una cosa istantanea. Avviene lì per lì, o non avviene affatto. Non penso in termini di etichette o stili. Cerco in tutti i modi di rimanere me stesso in tutti gli stili. A volte la vedo come la risoluzione di un problema. Ho a grandi linee una struttura, e la riaggiusto con la mia voce, un sentimento e un’atmosfera. Risolvo il problema cantando.

 

I tuoi precedenti video per dEUS come quelli per Quatre Mains e Sister Dew sottolineano la tua attenzione ai dettagli, una sorta di perfezionismo che in qualche modo rivela il tuo background da cineasta. Stai coltivando progetti simili per TaxiWars?

Tom Barman: Se solo avessimo il budget a disposizione! Certo che vorrei fare video! Il video per Sister Dew comunque non l’ho fatto io, bensì Adam Berg.

Robin, a un certo punto, durante l’intervista di Tom, Nick Cave dice che l’Australia gli manca così tanto che “riesce ad annusarla” a volte. Ma per qualche ragione complicata non può ritornarci. Nell’arco della tua vita ti sei trasferito dalla tua città natale Turnhout ad Amsterdam, Parigi e New York dove hai preso dimora dal 2006. Hai anche lavorato con alcuni “pesi massimi” del jazz del calibro di Marc Copland, Ravi Coltrane, Narcissus Quartet, Gary Peacock e Joey Baron. Provi qualcosa di simile per il Belgio, oppure hai un rapporto meno controverso con la tua terra d’origine?

Robin Verheyen: Non posso dire di aver mai provato quel tipo di sentimenti. Cerco di vivere il momento e di immergermi completamente nel posto in cui mi trovo in quel particolare momento, non importa se sono a casa mia a NYC, in un piccolo villaggio del Senegal, a Parigi o in Belgio. Ovviamente le esperienze vissute crescendo in Belgio faranno sempre parte di me e rimango in contatto con la mia famiglia in Belgio. Ma non sono una persona molto nostalgica.

Soprattutto i primi due album dei TaxiWars, per esempio i brani Death Ride Through Wet Snow e Fever, mi hanno fatto pensare rispettivamente alle seguenti due influenze: Freedom Suite di Sonny Rollins e Damn If I Know di Archie Shepp. Per piacere dimmi onestamente se mi sono sbagliato. (a proposito, lo stesso Sonny Rollins non si è fatto problemi a suonare il sassofono nell’Album Tattoo You dei Rolling Stones).

Robin Verheyen: Certamente in quanto sassofonista e musicista non posso non essere stato influenzato da sommi musicisti come Sonny Rollins e Archie Shepp. Amo entrambi questi lavori. Ma non posso dire che siano stati un’influenza diretta per questi album dei TaxiWars. In generale nel mio processo di scrittura musicale cerco di iniziare da una situazione di tabula rasa e cerco di permettere alla mia voce di parlare. Ma ho interiorizzato così tante cose nei miei anni di formazione come musicista che quei suoni sono ormai parte di un database musicale radicato nei recessi della mia mente.

La vostra esperienza con i TaxiWars è una brillante dimostrazione che la cosiddetta cultura alta e la cosiddetta cultura bassa possono benissimo mescolarsi e non andrebbero distinte l’una dall’altra. Dopo l’assegnazione del Nobel a Bob Dylan credi che possiamo finalmente dire che maestri come Duke Ellington e Thelonious Monk dovrebbero essere considerati come i Bach e Beethoven del nostro tempo?

Robin Verheyen: Non capisco nemmeno perché quella differenza sia stata messa lì all’inizio. Non ho mai creduto nella categorizzazione dell’arte. Il vino di un piccolo villaggio può essere tanto buono quanto un costoso grand cru, se non addirittura migliore talvolta. Lo stesso discorso vale per la musica. La musica folk indigena africana ha tanto valore quanto la musica classica occidentale o qualsiasi altra forma musicale. Ci sono soltanto due tipi musica, buona e cattiva. Una volta che qualcosa è un prodotto di qualità, le classificazioni non contano.

Il link all’articolo in versione inglese:

“Artificial Horizon” by TaxiWars

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Trevigiano di nascita e romano di adozione. Nel maggio 2016 ha pubblicato “Ballando con Mr D.” sulla figura di Bob Dylan, nel maggio 2018 “Da Omero al Rock”, e nel novembre 2019 “Twinology. Letteratura e rock nei misteri di Twin Peaks”.

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