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  Enzo Jannacci: la periferia al centro del mondo.

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Parte prima – Ciao Enzo

di Antonio Vivaldi

Quando il sipario calerà,
io me ne andrò
ed ogni luce svanirà;
io me ne andrò,
tu piangerai,
lei riderà,
certo qualcuno mi odierà,
ma lo spettacolo è finito
e me ne andrò,
e me ne andrò.

 

Se non fosse per le reazioni infastidite che avrebbe di sicuro suscitato nel diretto interessato (qualcosa tipo “Ma dì le cose in italiano, pirla!”), si potrebbe definire Enzo Jannacci chansonnier punk-nerd. Chansonnier in quanto capace di fondere melodie ben strutturate a testi struggenti (Io e te, ad esempio); punk perché quelle canzoni hanno immagini forti (“Quando mi dirai che è proprio roba da imbecilli vomitare proprio in mezzo alla strada” – Quello che canta onliù) e crude (“Natalia, non vedi le flebo che ti sparano dentro” – Natalia), nerd per via degli enormi occhiali con montatura nera e dell’abbigliamento da uno che, comunque, di primo mestiere fa il medico.

Cosa ci lascia Enzo Jannacci

Improbabili definizioni a parte, tentare di riassumere il lascito artistico di Enzo Jannacci, scomparso il 29 marzo 2013 dopo “lunga malattia”, dà veramente le vertigini se pensiamo che già negli anni ’60 (il periodo della collaborazione con Dario Fo) Jannacci passa dalle canzoni-teatro come Prete Liprando e il Giudizio di Dio al cabaret amaro di L’Armando e Faceva il palo fino a quella devastante storia d’amore in alfabeto morse che è Giovanni Telegrafista. Senza  dimenticare l’amore per il jazz messo in mostra  nell’improbabile hit Vengo anch’io no tu no. Poi arrivano gli album di fine anni ’70-inizio ’80, con Foto Ricordo e Ci Vuole Orecchio da annoverare fra i capolavori della musica italiana del secolo scorso.

La Milano di Enzo Jannacci

È in questo periodo che Jannacci, in parallelo con il giornalista-scrittore e amico-e-poi-non-più Beppe Viola, tratteggia un ambiente di periferia milanese (ma anche universale) grigio e a volte disperato che il boom economico ha dimenticato in case di ringhiera non ancora di moda o nei palazzoni di Quarto Oggiaro che di moda non diventeranno mai. Sono quartieri abitati da persone  che vivono come un mormorio lontano e poco interessante i grandi eventi nella storia del paese (il terrorismo, gli scandali politici), persone modeste tutte casa e lavoro perché altro non hanno e che agli stimoli sociali reagiscono in modo primario. Incredibile e persino preveggente in tal senso è la poco nota Dagalterun fandango (da O vivere o ridere), con la voce che grugnisce “dagalterun” e altre parole incomprensibili: più o meno il manifesto ideologico della Lega Nord esposto con qualche anno d’anticipo.

In ogni caso non c’è paternalismo nelle canzoni di Jannacci e nemmeno ideologia esplicita, così come è incompleto l’accostamento al surrealismo proletario di Cesare Zavattini; l’originalità sta nella loro compassione, nel desiderio di accendere un fuocherello di affettuosa solidarietà anche sapendo che la pioggia lo spegnerà dieci minuti dopo. Curioso che Fabio Fazio abbia definito questo mondo “bellissimo”.  Certo lo si può considerare interessante e persino suggestivo, a patto di frequentarlo, antropologicamente s’intende, per un massimo di mezz’ora.

Dagli anni ’80 in avanti

Paradossalmente album e canzoni si fanno meno interessanti e un pochino più saccenti proprio mentre Jannacci viene inserito nel Pantheon alternativo della cultura italiana, quello dove stanno Gaber (e va bene), Benigni (e pazienza) e Jovanotti (no, lui proprio no). Però si ascoltano  ancora momenti straordinari fra cui Il gruista o Come gli aeroplani in cui la vena diventa malinconica, persino nostalgica e l’ironia più aspra sembra messa da parte.

jannacci fotoricordo

L’ultimo Jannacci è stanco, confuso, anche se quando parla di Berlusconi ritorna lucido e violento dicendo cose da far sembrare da collegiale la recente frase di Battiato sulle “troie”. Un ricordo personale: Quattro-cinque anni Jannacci fa sale sul palco del Teatro Goldoni di Livorno in occasione del Premio Piero Ciampi, sfora i tempi della perfomance mandando nel panico l’organizzazione, si perde in un monologo dispersivo ma dai guizzi geniali (“il suv pagabile in comode rate di cinque euro al minuto”), poi attacca Vengo anch’io no tu no e la platea canta e batte le mani con lui, magari senza rendersi conto che quella è una tristissima storia che racconta l’emarginazione usando la prima persona (e anche la seconda). Un momento incredibile e, a ripensarci adesso, commovente.

 

Parte seconda – Jannacci e quelli che…   

 di John Vignola

Qui di seguito riproponiamo una lunga intervista di John Vignola a Enzo Jannacci, originariamente apparsa nel 2004 sul mensile Extra. Si tratta di una testimonianza davvero unica per gli argomenti trattati e i personaggi menzionati, ma anche di uno straordinario racconto surreale. Rileggerla ora è un’emozione non da poco.

L’incontro con Enzo Jannacci si è consumato nella sua casa in Viale Romagna, un appartamento semplice, con qualche mobile dell’Ottocento, videocassette, molti vinili, nulla di invadente, dall’impianto stereo che è rigorosamente d’epoca (per la cronaca, con enormi diffusori Jbl, quelli con i toni bassi senza paragoni) al tavolo di cristallo “che non c’è, è in riparazione”, nei cui pressi – primo tocco surreale – abbiamo preso due caffè americani. È cominciato così un dialogo magari un po’ confuso, ma lucido nella visione del mondo che trasmette.

Il tentativo di ricostruire una carriera di cinquant’anni, per questa volta, è riuscito a metà: il dottore va su e giù nel tempo come una boccia impazzita, accenna alla sua “operazione alla schiena”, che non gli permette di stare diritto sulla poltrona, ai suoi viaggi, ad amici persi per strada e confessa di sentirsi un po’ solo. Abbiamo così ricostruito gli accenti di una storia lunghissima, inevitabilmente per sommi capi, tentando di darle lo spessore che ha il suo interprete principale: a voi giudicare se ci siamo riusciti.

Quelli che… non vogliono crescere

Enzo Jannacci nasce a Milano nel 1935. La sua famiglia è di origine pugliese – “papà, per l’esattezza; la mamma è di qui…”. Figlio di Giuseppe, che è nato e vissuto comunque a Milano, viene chiamato come il nonno paterno, quello che Enzo definisce “l’emigrante, la parte di sangue controcorrente che possiedo”. La madre suona, il padre difende come aviatore l’Italia durante la resistenza. “I ricordi che ho di Giuseppe sono quelli di una persona giusta, rigida, però anche assente, sempre in volo. Io mi sono sviluppato tardi, sa, non solo fisicamente.

A quattordici anni facevo il liceo e avevo i piedi così grossi che non stavano in nessuna scarpa. In compenso non  ero alto più di un metro e cinquanta. Un nano, anche come cervello. Giocavo a judo e vincevo, ero agonistico. All’esame di quinta ginnasio – facevo il Gonzaga, il Liceo Classico, qui a Milano – mi hanno chiesto di scrivere una riflessione su Leopardi, o Carducci, non ricordo, e io avevo messo nero su bianco tutto ciò che avevo imparato, a memoria. Non andava mica bene”.

Jannacci ricorda che “per arrivare a crescere, d’altezza e di cervello, sono passato allo Scientifico. Insieme al mio compagno di banco avevamo deciso di saltare la quarta, di arrivare direttamente all’ultimo anno. La quarta scientifico non serviva e non serve a niente, secondo me. Così… così ho cominciato a perdere a judo: ero diventato troppo alto, non stavo più in equilibrio”.

Lui avrebbe frequentato volentieri Fisica, ma “era difficile, vicina alla filosofia. Invece con Medicina, pim pum, pam, tante cose si potevano studiare a memoria. Anche lì ho preso le mie mazzate, non creda, non è stato così facile: ho pure terminato con un anno di ritardo. Il fatto è che nel frattempo facevo il commediante in giro”.

Se gli si chiede come si vive in questo doppio binario, fra arte e pratica medica, il Nostro dice che per lui “è sempre stato in questo modo, le cose sono venute fuori naturalmente. Si era tutti amici, si facevano improvvisazioni, sketch. Io ho cominciato, diciamo così, seriamente: un pianista di jazz, con una tecnica, badi bene. Non è un caso se poi più tardi, in America, mi è capitato di suonare con nomi importanti. Solo, mi è successo di essere traviato dalle ‘cattive’ compagnie”.

Un riferimento diretto a Giorgio Gaber, amico dal liceo, complice in spettacolini vari. “Giorgio – dice subito, come per chiarire – è sempre stato molto diverso da me. Io avevo i miei problemi a uscire dalla frenesia in cui mi ero calato (e qui comincia una dotta dissertazione fra le droghe che si possono prendere per combattere il sonno e che non danno troppa assuefazione, ricordi di altri tempi, probabilmente, NdI), qualche volta volevo fermarmi. Lui invece è sempre stato un amante della celebrità, poi più tardi dello spettacolo, a teatro. È stato con alcune delle donne più belle dell’epoca. Dormiva, da sempre, tutto il giorno, cominciava a vivere di notte. Era impossibile parlargli prima delle otto di sera”.

Coincidenza degli opposti. È un dato di fatto che comunque il binomio, con il nome dei Due Corsari, nel 1958 avvia la propria carriera discografica. Esce un flexy disc nella rivista Il musichiere (Non occupatemi il telefono/Come facette mamma), “prime prove di registrazioni democratiche, nel senso di approssimative”. In mezzo c’erano state diverse band giovanili, “negli anni Cinquanta si toccava con mano un entusiasmo che poi si è perso. Non so se è successo anche perché è arrivata la tv, in fondo noi ne eravamo i paladini, agli inizi. So però che ci conoscevamo tutti, che gente insospettabile, Battiato per esempio, faceva cabaret.

Era un modo per andare avanti in un mondo in cui era palpabile che stava cambiando tutto”. Anche se i ricordi sono abbastanza nebulosi, all’epoca Enzo ammette di aver fatto “un sacco di rock’n’roll”, arrivando fino al Santa Tecla, il più importante locale milanese. Con Gaber incontra Adriano Celentano, uno che agli inizi “faceva quasi tenerezza, si muoveva a scatti, sembrava volesse fuggire più che stare sul palco” e mette su i Rock Boys. Arrivano i cosiddetti urlatori ed è strano che le affinità fra i due allora non fossero state notate e sfruttate a fondo. Celentano è una marionetta assoluta, Jannacci uno strumentista quasi epilettico.

“C’erano queste due canzoncine, c’era la sensazione di una scena che nasceva così, all’improvviso, mentre noi andavamo letteralmente all’avventura. Riposavamo pochissimo e io continuavo a studiare”. Un’avventura in cui non era importante niente altro che “essere sistematicamente un po’ fuori di testa”. Così i Corsari inanellarono una serie di pezzi stranianti e ludici: 24 ore, Ehi!… stella, Birra, Tintarella di luna, sempre, o quasi con I Cavalieri… Pezzi che sarebbero ritornati in superficie con il progetto Ja-Ga Brothers nel 1983, con un ep, un videoclip e i fratellini vestiti come i Blues Brothers, appunto. “A Vigevano, nel 1960, ci cacciarono dal palco. Era la fine di una esperienza che ruspava, fin troppo…

Di lì a poco avrei registrato con la Ricordi Passaggio a livello: non mi piace questa canzone, la rifece Tenco in un programma televisivo del 1964, ma non mi convinse nemmeno allora. Ho suonato, con i Cavalieri e lui, il pianoforte. In verità ero convinto di farlo solo per pagarmi gli studi; lui invece voleva fare carriera, anche se gli piaceva pure ingegneria. A me non è mai fregato mica tanto, di avere successo”.

Quelli che… c’era una volta Milano

Un’affermazione forte, se pensate che nel giro di pochi anni il futuro dottor Jannacci asseconda la sua vena surreale con Il cane con i capelli e Gheru Gheru e arriva diritto diritto ad uno spettacolo teatrale importante, assieme a una delle più belle e dolenti voci dell’epoca, Milly (nome d’arte di Maria Carla Mignone): Quella cosa in Lombardia cantata da lei rivaleggia con la versione di Enzo per intensità) e alla presenza scenica del grande Tino Carraro, attore strehleriano per eccellenza.

Lo spettacolo in questione si chiama Milanin Milanon e proprio lì l’artista stranito che è in lui tocca le prime corde di una poesia da palcoscenico assoluta, fatta di silenzi, di battute smozzicate, di comicità al confine con il pianto. Da questo momento in avanti le cose si muovono in fretta, fra il Derby tempio della comicità milanese, una serie di pezzi prestati anche ad altri, il piano al servizio di Sergio Endrigo e un piccolo tour. “C’era questo posto, dove ci si incontrava per fare ridere la gente e ridere noi stessi, che sarebbe stato chiuso quando non si rideva più da nessuna parte. Ho conosciuto Dario Fo, uno che a tutti gli effetti è il mio padre artistico, che mi ha fatto crescere parecchio, capire un certo modo di usare i versi…”.

Il binomio è inossidabile, per un po’ di tempo: in pratica Fo dà una direzione alla sregolatezza, agli scatti di Jannacci, aggiungendo una specie di tocco da teatro di strada in più. Dal canto suo, il Nostro mette al servizio di Fo un piglio dialettale importantissimo, che descrive la strada e gli amori impacciati, la tematica del vinto che si accontenta di poco (“deve, santo dio, deve”) e girovaga ai margini delle strade e delle speranze, con una sorta di vitalismo che non lo abbandona fino alla morte.

Dopo Le canzoni di Enzo Jannacci (1963), è La Milano di Enzo Jannacci, dell’anno successivo, a porre di fronte al capolavoro della sua prima produzione. È il 1964, appare in televisione a cantare El portava i scarp del tennis in maggio, nel disco mette assieme Ma mi, scritta da Giorgio Strehler, La luna è una lampadina, T’ho compraa i calzett de seda, Andava a Rogoredo.

Quelli che… è tutto un cabaret

Inesauribile, ha un grandissimo successo al Teatro Gerolamo con 22 canzoni, orchestrato e in parte scritto da Fo. Così è per Aveva un taxi nero, storia sulla prima famiglia dell’umanità mutata in un road movie fra macchine dalle gomme esplosive e mamme “che pregano nella camera”.

“Avevo anche recitato ne La vita agra di Carlo Lizzani, dove cantavo L’ombrello di mio fratello. Era mia intenzione scrivere di un mondo che si stava spegnendo, lì dove l’industrializzazione era ancora primitiva. Come Natalia dopo, oppure Mario, il mio personaggio con le scarpe da tennis ero un po’ io, se non avessi avuto la famiglia, nonostante mio padre e mia madre mi avessero tenuto sotto torchio”. Una delle tante storie senza lieto fine, in una galleria di ritratti che arriva fino al Cesare di un paio di anni or sono. “Ora c’è il nano (così viene apostrofato il Cavalier Silvio Berlusconi…, NdI) e tutto è sotto controllo, allora magari non si stava bene, ma c’era più confusione creativa. La fame aguzza l’ingegno, è così.

Io sono sempre stato rosso, sa, quindi la voglia di arrivare a dire cose estreme era naturale. La pratica con Dario mi aveva insegnato molto sui tempi del palcoscenico, sulle parole. Avevo scritto, per esempio, L’Armando quasi di getto, con lui che cadeva fuori dalla portiera (spinto dall’io narrante, un poveraccio che si giustifica in maniera sempre più improbabile). Per l’occasione avevo anche tirato giù il mio primo urlo cantato, dal vivo – poi un suo tratto tipico, da Silvano a Rido – in risposta a un gruppo di fascistelli che mi contestava. Il mio direttore del reparto chirurgia si chiamava Armando e non me l’ha mai perdonato…  Nei Sessanta c’era un cabaret diverso, che sarebbe venuto fuori poco a poco: io ho cercato di aiutarlo. Felice Andreasi, per esempio, era uno bravo, bravissimo; poi c’erano due ragazzi che parlavano a raffica, Cochi e Renato”.

Con questi il Nostro comincerà una collaborazione che andrà avanti sempre, finché esisterà il connubio, firmando canzoni e sketch. Fra i tanti, non si possono dimenticare, come pure Il poeta e il contadino.

Quelli che… la televisiun

Una prova di eclettismo da parte di chi è, ricordiamolo ancora, un musicista di tutto rispetto. “Sì, mi sono diplomato al conservatorio, in armonia. È un po’ come la storia del judo. Ero un tipo agonistico, mi è sempre piaciuto mettere insieme le parti di una costruzione: con la musica non si scherza, così come con la chirurgia. È anche un fatto di simmetrie. Ho avuto la fortuna di suonare, quando ero negli USA, con personaggi importanti della storia del jazz, gente come Stan Getz, Chet Baker, Chick Corea”. Leggenda vuole che Bud Powell gli dia “qualche dritta su come muovere le mani in estensione, guardi…”.

Non è un caso che Fabrizio De André, a teatro per vedere Enzo, abbia poi utilizzato la musica che aveva sentito per scrivere Via del Campo. Quando Jannacci pubblicherà la sua versione del pezzo, quasi trentacinque anni dopo in Come gli aeroplani, vorrà ribadire la paternità delle musiche in una conferenza stampa abbastanza movimentata. “Beh, dovevo mettere in chiaro questa cosa. L’avevo già fatto con Fabrizio nell’Ottanta, senza drammi”.

Il 1964 è comunque un anno tumultuoso, nel quale escono pure i due dischi legati alle performance teatrali. “Avevamo ogni tanto queste apparizioni in RAI, sa, la televisiun (stigmatizzata in apertura di Quelli che…, nel 1975). Io la facevo senza pensarci troppo sopra, mi sembrava che fosse un modo simpatico per portare le idee del cabaret verso qualcosa di più vasto. Non le dico però quante volte capitò che i vari capi di turno avessero da ridire. Jannacci sta’ fermo, oppure Jannacci muoviti erano le apostrofi che venivano fuori continuamente. Meno male che alla fine c’erano degli illuminati che erano in sintonia, diciamo così, con quello che si tentava”.

La collaborazione con Cochi e Renato porta a pezzi come Ho soffrito per te e A me mi piace il mare cantati in tv con una presenza occulta, ai controcori, del Nostro, mentre nel 1966 esce Sei minuti all’alba, un album che forse non è all’altezza dei singoli, ma che contiene uno dei pezzi più scanzonati del primo periodo del cantautore lombardo-pugliese, Faceva il palo. “In tanti brani dei Sessanta i riferimenti sono a un presente che è già in qualche modo mitico, da rimpianto; qualcuno ha detto pre-industriale. Non lo so: di certo la disperazione umana di certi personaggi oggi si è persa del tutto”.

Quelli che… imparano

Il dialetto dei primi Sessanta lascia il posto all’italiano, per quanto volutamente sgangherato, e arrivano Vengo anch’io, no tu no, Bobo Merenda, Giovanni, telegrafista, Ho visto un re. Il primo nel 1968 diventa un hit, a tutti gli effetti.

Nel ’67 arriva pure la laurea in Medicina, che verrà approfondita con una specializzazione in cardiopatie infantili. “Se le dico che con il tempo mi sono convinto di aver scelto quella professione per aiutare gli altri, magari non mi crede e tutto suona retorico, gratuito. Eppure, soprattutto nei miei viaggi – sa, ho conosciuto tantissimi personaggi del mestiere e mi sono messo all’opera con umiltà – sono riuscito a lavorare in condizioni difficilissime, senza andare per il sottile, ma pensando solo al bene dei pazienti. Certo, così era inevitabile farsi odiare, e poi io non sono una persona che va troppo per il sottile. Qualche volta ho subito scherzi terribili, da colleghi che magari avevo criticato. La riconoscenza di chi è malato mi basta”.

C’è un pezzo, Natalia, apparso su Foto ricordo (1979), che spiega benissimo questa attitudine, un altro tassello importante della musica di Jannacci, che verrà fuori sempre di più con il passare degli anni: “Natalia, che hai solo sette anni e fai la figlia di un ferroviere…/ Natalia che non puoi sapere cos’è brachicardia / cioè che tutto sta andando a puttane e così sia”.

Sempre nel 1967 Enzo sposa la donna della sua vita, Giuliana Orefice, che vigila ancora oggi, in qualche modo, su di lui. Il sottoscritto le viene presentato per una serie di equivoci come un amico ingegnere; l’impressione netta è che senza di lei quest’uomo abbandonato in maniera un po’ contorta sulla seggiola di un salotto discreto, quasi ovattato (“cosa vuole, ora sto bene, ma ho subito un’operazione alla colonna vertebrale mica da ridere…”), non potrebbe muovere un passo nella vita reale. Lui non dice molto di sua moglie, si limita a far vedere una foto doppia, dei primi Settanta, di loro due insieme in vacanza.

Non riusciamo a capire come ha fatto a conciliare certi periodi con una famiglia, ma “è soprattutto una questione di pazienza, con me ci vuole pazienza. Quando uscì l’album Vengo anch’io, no tu no (1969, NdI) c’era tutto un casino: programmi televisivi, cabaret, cose del genere. Non sono mai stato bravo a guardare le cose da lontano, ho sempre vissuto, tirato la corda, così qualche volta facevo crack… Poi c’era chi mi voleva male per le cose che dicevo, nelle canzoni. Qualche tempo fa in radio RAI avevano deciso di fare uno speciale su di me, ma si sono accorti che tutti i vinili dell’epoca, tutti i 45 giri, erano stati rigati, erano inservibili. L’azienda non mi amava, ecco…”.

Quelli che… emigrano

Nel disco del ’69 il Nostro mostra anche tutta la sua verve musicale, grazie agli arrangiamenti di Luis Bacalov e alla produzione di un amico, Nanni Ricordi, con cui nei Settanta intraprenderà l’avventura indipendente dell’etichetta Ultima spiaggia. “Molte delle persone a cui ho voluto bene se ne sono andate, a cominciare da Beppe Viola, nel 1982. Con lui avevamo fatto tantissimo, scritto canzoni, un romanzo (L’incompiuter, 1975, che contiene una specie di bozza del tormentone Quelli che, pubblicato da Bompiani per una collana diretta da Umberto Eco), avevamo avuto tantissime idee…”.

Viola è di certo una delle figure meno celebrate e più grandi del giornalismo, non solo sportivo, italiano, uno scrittore in piena sintonia con la vena stralunata di Jannacci, a cui aggiungeva da sempre un’ironia e una inventiva di linguaggio straordinari. “Se ne è andato troppo presto, a quarantadue anni: altra dimostrazione delle ingiustizie della vita”.

Un’altra ingiustizia è il rifiuto che la RAI gli oppone quando vuole portare Ho visto un re alla Canzonissima del ‘69/’70, dove arriva in finale. “In qualche modo era il termine della corsa. Vede, io ero un autore tutt’altro che di nicchia all’epoca. Vengo anch’io, no tu no era stato un bel successo da classifica l’anno prima. Solo che non volevo seguire le regole degli altri. Così me ne sono andato”. Un esilio che lo porta negli States, ad approfondire le tecniche chirurgiche (“i primi mesi presi tantissime bastonate, nel senso che mi obbligarono a studiare inglese in maniera intensiva e che una volta rimasi da solo ad Harlem…”).

Sarà stato pure lontano, ma è in questo periodo che escono alcuni dei suoi lavori più compiuti, da La mia gente (1970) a Jannacci Enzo (1972), con la complicità di Ricordi, fino all’esordio per L’Ultima spiaggia, Quelli che… (1975). “Lo sa che ho avuto uno zio mafioso, in meridione, Vincenzo? Almeno, io credo che fosse mafioso perché diceva di lavorare nell’import/export, spariva e nessuno sapeva dove finiva. Poi d’improvviso si rifaceva vivo… Nei miei pezzi dei primi Settanta forse avevo meno voglia di ridere, mi interessava ancora di più il jazz, ma è un’altra storia. Avevo rifatto tanti cavalli di battaglia vecchi e alla fine, in Quelli che… avevo messo tutto: radici proletarie (Vincenzina e la fabbrica), passioni sportive (Karate), spaesamenti vari. Ah, era nato anche Paolo (1972, NdI), dovrebbe avere la sua età…”.

Il figlio appare fugacemente durante la chiacchierata, quasi evocato. Ha messo insieme gli arrangiamenti del padre negli ultimi album, ha studiato al conservatorio (“anche lui è uno sportivo, l’ho obbligato…”), sta facendo la spola fra Milano e Sanremo, causa festival. Al festival Enzo è andato la prima volta tardi, con Se me lo dicevi prima nel 1989, con La fotografia (in compagnia di Ute Lemper) nel 1990. Poi assieme a Paolo Rossi nel 1994 con I soliti accordi (in sintonia con l’anno di Tangentopoli) e nel 1998 con Quando un musicista ride, premio assoluto della critica.

Arriva, insomma, nella città dei fiori, in un momento – anagrafico – non sospetto. “Non ho mai considerato Sanremo uno spettacolo soltanto deteriore, non sono mica pazzo (risata, NdI)… Si è trattato per anni dell’unico palcoscenico molto visibile disponibile in Italia. Il problema è che ora, con questa edizione, diventa sempre più soffocante, meno libero… Beh, non so. Questo mi fa pensare ancora alla censura in televisione. Più di una volta mi hanno chiesto di cambiare sketch o pezzi da cantare. Io spesso non lo facevo e venivo cacciato. Il mio primo provino in tv era stato un disastro, ero stato considerato inadatto a fare televisione. Poi, chissà perché, ogni tanto venivo recuperato”.

Quelli che… tornano

Riannodiamo i fili del tempo. Nonostante il cattivo rapporto quindi con mammarai, Jannacci ogni tanto ritorna. Lo fa con Mina nel ’70, mentre recita nel film a episodi Le mogli, di Mario Monicelli. “Nei film io sono sempre stato utilizzato per la faccia, credo. Non ho mai imparato a fare davvero l’attore. Sapevo che se mi davano un certo tipo di ruoli, dove si parlava poco e magari si poteva essere malinconici, non avrei avuto problemi. È chiaro che con il tempo ho affinato le tecniche del teatro. Sa, il segreto di tutto è l’umiltà.”

Umiltà da utilizzare in ogni ambito. “Quando sono diventato professore associato all’università, nel reparto chirurgia, mi sono reso conto che spesso manca a chi deve imparare. C’era un mio assistente che per quattro anni mi ha preso in giro: non sapeva leggere le lastre, e non mi chiedeva spiegazioni, ammiccava. Non è così che si può andare avanti, che si possono aiutare gli altri. Con il mio maestro, Dario Fo, io ho appreso tantissimo perché ho saputo chiedere. Non riuscivo a sviluppare le idee e ho chiesto aiuto. Così sono venute fuori parecchie delle mie canzoni storiche”.

Il Nostro è il protagonista de L’udienza, di Marco Ferreri, in pieno stile surreale, e finisce per collaborare con Beppe Viola alla sceneggiatura di Romanzo popolare di Mario Monicelli, di cui firma pure la colonna sonora. “Non erano, quelli, tempi in cui si stesse bene, però il marcio che abbiamo addosso ora non era così evidente. Con Beppe parlavamo spesso di un ‘progetto’ per resistere. Ora ce n’è un bisogno assoluto, ma siamo sempre più regolati da quell’elettrodomestico che chiamiamo televisione e che invece di essere regolato, come la lavatrice, regola noi. Andiamo avanti a immagini, presto non avremo più bisogno di parole. Il nano sarà contento. Lo sa che in Italia ci sono ventidue milioni di analfabeti, di ritorno e non (!?, NdI)? Così non si può combattere, non si hanno gli strumenti.

Partendo dalla televisione il discorso si amplia: “Io ho cantato il dramma degli esclusi: Vengo anch’io, no tu no, El purtava i scarp del tennis, El me indiriss… Come medico, ho visto morire tanti bambini per trascuratezza di chi li dovrebbe curare. È pure un problema di cultura, bisogna reagire a ciò che abbiamo intorno in maniera violenta, altrimenti andrà sempre peggio. Credo che Beppe sarebbe d’accordo con me…”.

Quelli che… ridono?

Nel ricordo del dottore, la seconda parte dei Settanta passa piuttosto velocemente. C’è il commiato televisivo di Cochi e Renato con E la vita, la vita, nella Canzonissima del ’74. Arrivano altre collaborazioni a colonne sonore (Pasqualino Settebellezze della Wertmüller, con tanto di nomination all’Oscar) e sceneggiature cinematografiche. Poi un fuoco di fila di antologie e l’uscita di O vivere o ridere (1976) un lavoro fosco, per certi versi, nonostante sia aperto dal celebre inno di Bixio, Vivere, con l’apice in Senza i danè, nella struggente e quasi senza parole Dagalterun fandango, fino a Rido. Domina, in sostanza, la tristallegria, un sentimento in cui il Nostro è maestro assoluto.

C’è quindi un lp-lampo, prodotto da lui in prima persona nel 1977, Secondo te… che gusto c’è?, più lieve forse, con Libe là (successo con Cochi e Renato), Rino, Jannacci, arrenditi!. “Non so se ho fatto certe cose per incoscienza o per idiozia. Quando fuori si respirava un clima come quello degli anni di piombo, l’unica cosa che mi veniva naturale da ricordare era ancora una volta l’appartenenza, la mia gente. Ogni tanto si strafava, come accadde magari con il disco con Mina (Mina quasi Jannacci, 1977), dove ho messo in mano alla signora alcune delle mie storie più belle, ma forse non le ho valorizzate con gli arrangiamenti”.

Intanto cambiano le facce del cabaret, arrivano Abatantuono, Boldi, Faletti, secondo alcuni figli naturali dell’esperienza dei Sessanta. Enzo non si esprime chiaramente sulle nuove leve, precisa solo che molti sono stati scoperti, quasi tolti dalla strada da lui; forse la vitalità che scorge intorno è quella che lo riporta a teatro nel 1979 con Saltimbanchi si muore, richiamo a una canzone di Foto ricordo, uno dei suoi capolavori, dello stesso anno.

Mario e Io e te basterebbero da sole per giustificare il giudizio: “un’altra vita da povero cristo, quella di Mario, messa in un disco ambizioso, forse, con il tributo alla poiana firmato da Fo e un paio di cose alte, insieme poi alla disillusione sull’età e sugli anni che si stanno vivendo (un preludio forse alla Milano da dimenticare, quella degli Ottanta, NdI) di Io e te”.

Quelli che… non ricordano

Arriva così un nuovo decennio, in cui il Nostro comincia con Ci vuole orecchio, un altro motivo celebre e un album molto orchestrato, con le vette surreali di Silvano e Quello che canta Onliù, e chiude con il doppio dal vivo 30 anni senza andare fuori tempo (1989). In mezzo, subito dopo le Nuove registrazioni 1980, c’è il tour in tenda del 1981 con una vera e propria big band e cinquemila posti disponibili, perché “bisognava farlo, un po’ di maledetto jazz, era ora, prima di diventare quasi paralitico”.

Ci sono anche gli arrangiamenti grandiosi di E allora… concerto (1981), un lavoro non sempre riuscito, teso fra passato e presente, una serie di apparizioni televisive dal vivo (una censurata in alcune parole, addirittura, e poi quella celebratissima nel format DOC di Renzo Arbore) e in studio, talvolta nel ruolo quasi di conduttore (!), e le solite sortite cinematografiche (fa il terrorista in Scherzo del destino in agguato come un brigante di strada, della Wertmüller, e ha un piccolo ruolo ne Il mondo nuovo di Ettore Scola).

È strano, come per i presbiti, che non riescono a vedere le cose troppo vicino, la memoria di Enzo si chiude quasi su molti avvenimenti più recenti, per esempio su quel Discogreve (1983) in cui fa il verso a se stesso e alla passione per la palestra,  spiega che in reparto non sempre le cose vanno bene (Il maiale). “Cosa vuole, il cervello funziona in un modo che non è ancora stato capito né spiegato del tutto, e meno male che è così. Pensi, altrimenti, a quanto saremmo controllati, in un momento come questo?”.

Si riformano gli Ja-Ga Brothers per il mini-album di cui sopra, “e allora sì che avremmo potuto essere due che fanno rock’n’roll con  i fiocchi…”, esce quindi L’importante (1985), dove vengono toccati anche i problemi con la droga (Son s’cioppàa), le solite antologie e un lavoro come Parlare con i limoni (1987), fin dal titolo segno che la maniera non gli appartiene, “semmai le stonature, certe volte”. Nel 1989 viene festeggiato per i trent’anni di carriera al Castello Sforzesco, con gli amici di sempre e qualche sorpresa, per esempio la prima apparizione in pubblico del figlio Paolo.

Quelli che… non spariscono

Poi, quasi il vuoto, almeno da un punto di vista discografico: Guarda la fotografia (1991), I soliti accordi, con pezzi vecchi e nuovi, le “revisioni” di Quando un musicista ride (1998), orchestrate dal figlio Paolo. Nei Novanta “la professione, da un lato, ha avuto la meglio. Dall’altro, c’è stata la storia della Bolgia Umana, un tentativo di fare cabaret, gestire un locale, tenere un laboratorio (gratuito), una bottega di giovani in gamba, che è finita male, perché mi sono fidato di persone disoneste”.

La Bolgia Umana apre il 14 febbraio 1994, chiude alla fine del 1997. Un’utopia – ma qui il maestro sbotta: “ma che utopia, è stata pratica, praticissima. Per questo non lo rifarei…” – in cui erano stati coinvolti moltissimi amici, da Fo a Lauzi, Villaggio, Toffolo, Andreasi, Abatantuono.

In ogni caso Jannacci non abbandona per nulla la tv, Sanremo a parte. Si vede per esempio in Su la testa!.. con Paolo Rossi (1992), in un tripudio che riporta in auge Cochi Ponzoni e prelude al suo riavvicinamento con Renato. E’ poi presenza occulta di Quelli che il calcio di Fabio Fazio, che mette in sigla d’apertura una versione di Quelli che… improvvisata e nuova in ogni stagione. E’ presenza fissa e concreta de Il laureato bis nel 1996, con Piero Chiambretti, dove rispolvera i soliti classici e duetta, fra gli altri, con Ligabue; va ad Anima mia, ancora di Fazio. Nel ‘97, di notte, su Raiuno viene messo in onda per nove settimane Quelli di Jannacci, con il coinvolgimento diretto degli allievi della Bolgia Umana: “un’operazione fatta con pochissimi soldi, perché nessuno di noi ha rubato”.

Effettua diverse sortite teatrali, diversi concerti, recita in televisione. Non è per nulla messo in disparte, insomma, come alle volte è stato scritto in maniera affrettata.

Quelli che… restano

Il resto è storia talmente recente e scritta, anche su pagine vicine a queste, che non possiamo che accennarvi: il ritorno di Cochi & Renato con la serie televisiva Nebbia in Val Padana (la sigla è sua), la lotta per far uscire un doppio album nuovo, che la casa discografica non vuole, posizione che il Nostro non ci pensa due volte a rendere pubblica: “mi hanno sempre trattato con sufficienza, in certi ambienti. Il gesto con la manina, quello che significa ‘camminare’, me l’hanno dedicato un sacco di volte. Io di solito non ci faccio caso, mi ripresento, come un pugile che prende tanti pugni ma è fatto di gomma”.

Così, dopo l’operazione alla colonna vertebrale che lo ha reso “meno atletico, più grasso, che disastro,” di un tempo, esce per Ala Bianca Come gli aeroplani (2001).  Curato amorevolmente da Paolo, l’album è salutato da molti come un capolavoro. La foto della copertina, con il padre Giuseppe in uniforme, completamente sgualcita, fa capolino sulla parete di fronte a noi. Il disco verrà celebrato dal Premio Tenco per un paio d’anni, nel 2002 con il riconoscimento come canzone dell’anno a Lettera da lontano, che nomina prima Silvia Baraldini e poi Carlo Giuliani, mentre a febbraio del 2003, due mesi dopo la morte di Gaber, esce L’uomo a metà.

“Sono difficile da abbattere, vede”, dice Jannacci a commento di quelli che sono stati gli ultimi anni. “So benissimo che il mondo è oramai nelle vostre mani, ma faccio come la poiana, non me ne vado. Ora sto lavorando a un album in dialetto che prende le mosse da La Milano di EJ. Sono all’incirca quelle canzoni, risuonate, perché credo ancora adesso che siano davvero valide”.

A questo punto non possiamo astenerci dalla domanda che riguarda l’alchimia necessaria per arrivare a una buona canzone, sperando di avere una risposta in sintonia con il personaggio. “Eh, è difficile da dirsi, un conto è per esempio parlare di standard jazz, un altro di canzoncine. Diciamo che quando un musicista ride, vuol dire che il suo lavoro sta funzionando. Se viene da sghignazzare, è tutto sotto controllo.”

“Mi ricordo di quando mi è balenato in mente il primo vero pezzo che ho scritto (prima firmavo solo con Gaber, ma lui era già una star, io un poveraccio, un pianista che per giunta suonava la chitarra), Andava a Rogoredo. Appena ho cantato l’incipit sono scoppiato a ridere, a crepapelle. Nessuno capiva perché, io sì. A proposito, uno degli autori più dotati oggi mi sembra Daniele Silvestri. Firma cose che quasi gli invidio, e guardi che è raro che ammetta che qualcuno possa essere meglio di me…”

Se “la tristezza per gli amici che se ne sono andati è tanta”, Jannacci affronta quello che gli capita come sempre, in uno stato di confusione (“sono sempre stato fuori sincrono, non è mica l’età”) proficua e di una divisione fra la professione di medico – è in pensione, ma continua a fare visite – e quella di artista sbilanciata, di volta in volta, da una parte o dall’altra. Il ricordo più bello di un incontro del genere sarà alla fine quello di aver assistito per qualche ora a una rappresentazione artistica tout court. Non tanto una ricostruzione del proprio passato, ma una affabulazione senza fine e senza direzione, una caratteristica importante dell’opera di Enzo Jannacci.

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John Vignola (non è il vero nome) e Antonio Vivaldi (è il vero nome) si frequentano da oltre due decenni, dopo essersi conosciuti a un concerto organizzato dalla rivista Rockerilla, fucina dei loro primi guizzi musico-giornalistici. Entrambi si dedicano tuttora a tale frivola attività, nel frattempo diventata assai démodé. Sono cultori della cialtroneria bene informata che vorrebbero elevare a forma d’arte. Vignola sta con i Beatles, Vivaldi vorrebbe stare con gli Stones, ma preferisce i Kinks.

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