jazz 2018

Consuntivo problematico del jazz 2018.

jazz 2018

La domanda in fondo è sempre la stessa: A cosa servono i consuntivi e le liste di fine anno? Oltre che a titillare l’amor proprio di chi le deve redigere, s’intende. A mia parziale discolpa confesso di farle fin dalla più tenera età: ricordo perfettamente il quaderno protocollo con la copertina blu sul quale ogni settimana stilavo la classifica dei dischi che avrei dovuto, ma soprattutto voluto, comprare durante le mie visite pressoché quotidiane ad uno dei millanta negozi che si trovavano allora in città.

Le classifiche, vecchia passione irrinunciabile

I titoli li copiavo dalle riviste che leggevamo tutti – Gong, Muzak, Re Nudo, Musica Jazz, anche Ciao 2001 – o dalle collezioni degli amici con cui trascorrevamo i pomeriggi ascoltando i pochi dischi in nostro possesso, spesso registrandoli per averli almeno su cassetta, operazione che però serviva solo a ricordarci quanto avremmo voluto l’agognato vinile (che peraltro ancora nessuno chiamava così).

jazz 2018

Solo molto raramente riuscivo ad acquistare il titolo numero uno della mia lista, perché quando finalmente racimolavo la cifra necessaria, quello costava 500 lire di più, oppure vedere dal vivo la copertina faceva scemare il mio interesse, oppure chissà cos’era che ti faceva scegliere un disco che magari non avevi nemmeno mai sentito.

Il jazz di questi anni

Altri tempi. Lo dico senza nostalgia. Ora tutto è cambiato: i dischi li compro solo dopo averli ascoltati in mp3 o in streaming, tanto che a volte rimangono incellofanati, che poi chi ha il tempo di riascoltarli. Nel frattempo la funzione sociale della musica si è enormemente depotenziata, in particolare quella del jazz che, come scrivevo l’anno scorso, ha perso la centralità che aveva all’interno delle correnti culturali del secolo scorso (l’autocitazione serve solo a ribadire quanto la situazione poco sia cambiata in 365 giorni soltanto).

Critici a confronto sul jazz 2018

Le liste invece sono rimaste, anzi sono aumentate: io la faccio tornando indietro a vedere cosa ho comprato, cosa ho consigliato, cosa mi è piaciuto davvero. E poi, lo ammetto, guardando quelle dei giornali stranieri (che fa più chic e non impegna) tipo Pitchfork o Down Beat o JazzMagazine.

Per confrontarla con la mia, confortato dal vedere gli stessi titoli o deluso e irritato dal trovarci Kamasi Washington che ha fatto un disco di cui proprio non si sentiva il bisogno. De Gustibus. Poi è arrivata quella di John Fordham, il critico del Guardian: Joe Lovano con Dave Douglas al primo posto (“sì, bello, ma da me è rimasto fuori”), Still Dreamers di Joshua Redman (“ce l’ho!”) e al terzo Myra Melford’s Snowy Egret, The Other Side of Air (“Ahia, nemmeno sentito una volta per sbaglio”). Di Fordham mi fido moltissimo, abbiamo più o meno gli stessi gusti e visto che quel disco ce l’avevo lì, scaricato da chissà quanto tempo, mi sono disposto ad ascoltarlo.

Myra Melford

Chi ama la musica lo sa: ci sono alcuni momenti nella vita, in cui il brano che stai sentendo riesce a far scomparire tutto quello che ti sta intorno, brutture comprese che di questi tempi sono pure tante. Può accadere quando meno te lo aspetti, in un momento o in un posto che non avresti mai detto, alla radio, davanti a un computer o a un impianto da 20.000 euro, non ha importanza, è la musica allo stato puro che ti colpisce e ti porta altrove, da dove non vorresti mai tornare. Con il disco di Myra Melford è successo, tanto che sono corso sul suo sito a ordinare il doppio vinile in edizione limitata.

 

Arriverà tra una ventina di giorni, ma so già che riascoltarlo non sarà lo stesso: la cosa bella di quando accade questa sorta di rapimento dei sensi è che non lo dimentichi mai più; la cosa brutta è che è impossibile ripeterlo.Pazienza. Nel frattempo sto acquistando tutta la discografia di Myra Melford; perché evidentemente, in mezzo a tanta confusione, il jazz ha mantenuto la capacità di stupire. E scusate se invece di redarre un’arguta discettazione sullo stato dell’arte mi è venuto fuori questo testo a metà tra il nostalgico e il fiducioso. D’altra parte, come cantava il mai troppo rimpianto Rino Gaetano, “Se mai qualcuno capirà, sarà senz’altro un altro come me”. Buon jazz a tutti!

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Da ragazzo ho passato buona parte del mio tempo leggendo libri e ascoltando dischi. Da grande sono quasi riuscito a farne un mestiere, scrivendo in giro, raccontando a Radio3 e scegliendo musica a Radio2. Il mio podcast jazz è qui: www.spreaker.com/show/jazz-tracks

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