I Tinariwen al bivio.
Ma la world music non dovrebbe essere libertaria e per sua stessa natura anticolonialista? Non dovrebbe essere la voce di chi non ha voce? I Tinariwen sembravano in questo senso un esempio da manuale: musicisti con alle spalle una vita durissima (carcere politico incluso) e sostenitori dichiarati, se non addirittura militanti a tutti gli effetti del movimento indipendentista touareg da decenni in lotta con il governo del Mali. Tanta autenticità li faceva apprezzare da certa sinistra internazionale sempre pronta a entusiasmarsi per qualsiasi rivolta ‘antiautoritaria’ e a trovare la giustificazione per ogni nuova guerra contro qualche cattivo dittatore (salvo poi scoprire che, come capi, gli ex oppressi a volte sono più carogne e magari più incompetenti di coloro che hanno deposto).
La musica ammaliante dei Tinariwen
Inoltre i Tinariwen potevano – e possono – contare sull’indiscutibile fascino di una musica ipnotica, ammaliante e connotata da un’ancestrale legame con il blues d’oltreoceano. Quando, a inizio 2012, la rivolta tuareg prese forma di vera e propria avanzata militare, i Tinariwen non ebbero dubbi nell’appoggiarla apertamente, anche se la cosa non ebbe grossi riscontri (nessuno si preoccupa se te le prendi con un governo come quello del Mali, paese che non può contare neppure su qualche calciatore famoso). Poi però capitò un guaio: la rivolta sahariana vide nascere un’alleanza tattica fra il movimento tuareg e l’AQIM (al Quaeda nel Maghreb islamico), diverse città fra cui la mitica (e, fidatevi, nemmeno tanto affascinante) Timbuctù caddero in mano ai rivoltosi e il mondo s’irretì d’orrore pensando all’incunearsi del fondamentalismo islamico nel cuore dell’Africa.
Ovviamente la situazione era, ed è, ben più complessa di così. Detto chiaramente, la “global war on terror”, nello specifico contro un’organizzazione come l’AQIM, infiltratissima dai servizi segreti algerini con approvazione occidentale, costituisce per i governi del primo mondo la scusa nobile per cercare di mantenere il controllo su una zona ricchissima di risorse naturali ed evitare al tempo stesso l’espansione di una Cina sempre più partner privilegiato di diversi governi dell’area.
Una presa di posizione difficile
A questo punto i nostri Tinariwen si sono ritrovati in difficoltà: popolarissimi in Francia, in tutta Europa e anche negli Stati Uniti (e con tanti begli impegni festivialeri già programmati per il 2013), devono avere temuto di venire considerati collusi con una gang di fanatici tagliatori di mani. Poi c’è stato l’intervento francese e Timbuctù è ritornata in possesso del governo di Bamako con grandi applausi a Hollande e feste di piazza nella capitale immortalate dalle tv di tutto il mondo. Ed ecco che su Repubblica del 28 gennaio appare un’intervista ai Tinariwen intitolata “Che errore avere appoggiato i ribelli – noi Touareg non siamo terroristi” . La giornalista Francesca Caferri punta il dito accusatore contro i “Touareg che hanno appoggiato Ansar Dine e gli hanno consentito di penetrare nel territorio del Mali” e quindi si produce nella retoricissima domanda “In questo quadro così complesso, ha fatto bene la Francia a intervenire?”.
Il neocolonialismo invade l’Africa
Pur con tutte le attenuanti di cui sopra, la risposta è ben più che imbarazzante e farebbe venire i brividi persino sotto il sole del deserto: “L’intervento è giustificato perché Parigi è parte fondamentale nella storia coloniale di questa parte del mondo”. Wow, se anche i Tinariwen dicono che Parigi ha fatto bene, allora l’Occidente è proprio nel giusto e nemmeno viene il dubbio che, mutatis mutandis, la frase sia perfettamente sostituibile, ad esempio, con “Mussolini (o il generale Graziani) è parte fondamentale nella storia dell’Etiopia”. A questo punto, e ritornando all’interrogativo iniziale, viene il dubbio che la world music sia ormai una sponda culturale all’odierno neocolonialismo di Hollande e Obama, magari di sinistra e ammantato di buone intenzioni per la rinascita dell’Africa, ma del tutto uguale quanto a ‘mission’ a quello di Sarkozy e Bush. Anzi, a pensarci bene, la sensazione è che i Tinariwen rischino di scivolare in una sorta di autocolonialismo: ci battiamo per i nostri diritti, ma se ce lo dite voi ci fermiamo.