Il primo album dei Killing Joke (1980) è stata un’esplosione che ha deflagrato e spiazzato tutto ciò che c’era stato prima. Un disco senza paragoni possibili. In piena epoca punk/new wave,  Jaz Coleman e compagni (Paul Ferguson alla batteria, Kenneth Walker alla chitarra e Martin Glover al basso) sconvolgono il panorama musicale del periodo con un sound unico e primigenio, un’energia infernale e distorta, danze macabre, ritmi tribali, ossessivi e paranoici, apparati melodici ansiogeni, percussioni che non danno tregua, una musica che ti rincorre dalla quale è difficile sfuggire.

I Killing Joke braccano gli ascoltatori con Requiem, il brano di apertura, incatenandoli e costringendoli a partecipare, sbalorditi, a questa sorta di rito funebre dall’andamento compulsivo e martellante, originale e irripetibile. Con il secondo pezzo, dall’impianto meno esotico, Wardance, davvero si aprono anche le danze, che proseguono con brani come The Wait o Complications; ai loro concerti si pogava, ma parlare dei Killing Joke come di un gruppo punk porta fuori strada: troppo funky le loro danze di guerra e troppo stravaganti e articolate le loro invenzioni ritmiche e armoniche. Bloodsport è una affannosa corsa elettronica, con Tomorrow’s World, $ 0.36 e Primitive lo Scherzo Che Uccide ci trasporta all’apice di un delirio nevrastenico e irresistibile.  Otto “canzoni”, sarà il termine esatto?, che da ventotto anni cercano un prosieguo, ma che nonostante i vari tentativi restano in una sorta di fortezza mai espugnata completamente.

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Ha suonato con band punk italiane ma il suo cuore batte per il pop, l’elettronica, la dance. Idolo dichiarato: David Byrne. Fra le nuove leve vince St. Vincent.

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