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Dodicesima puntata particolarmente ricca e con punte di eccellenza

Big Grams

Big Grams

Big Boi & Phantogram danno vita al progetto e all’EP d’esordio Big Grams (Epic). Antwan Patton / Big Boi, già metà Outkast e protagonista di una buona carriera solista, è sempre un rapper splendido; qui è accompagnato dalla voce di Sarah Barthel che aggiunge un tono pop al tutto. La produzione varia da brano a brano. Per noi il momento migliore è la collaborazione con Run The Jewels su Born To Shine, soprattutto perché l’intreccio fra il flow di Killer Mike e quello di Big Boi ottiene risultati notevoli. Con sette canzoni, Big Grams rappresenta un buon inizio; magari per un LP (se previsto) vedremmo bene una maggiore compattezza di produzione, però c’è già di che essere soddisfatti.

7,4/10

Blackalicious Imani Vol 1 2015 01

Blackalicious

Il ritorno dei veterani (ma non troppo prolifici) Blackalicious farà felici quanti hanno amato il loro genere immaginifico, tra conscious rap e pop; rimasti underground nonostante qualche momento di gloria (il principale legato alla canzone Alphabet Aerobics), mancavano ormai da una decina d’anni. Imani Vol. 1 (OGM Recordings) è una buona conferma di quanto fatto in precedenza; un suono dalla forte dimensione live, beats che guardano soprattutto alla produzione fine anni ’90 senza sembrare troppo datati (se non a tratti), e al solito il flow complesso cui il duo ci ha abituati. Se non un trionfo, un lavoro divertente e vario. In attesa dei voll. 2 e 3, già annunciati.

7,4/10

Apollo Brown Grandeur

Apollo Brown

Apollo Brown è infaticabile produttore e collaboratore di tante uscite recenti; Grandeur (Mello Music Group) porta soltanto la sua firma anche se naturalmente ogni brano ha i suoi interpreti, più o meno noti, ma evitando star: Brown resta un pilastro del rap underground, il che non significa forzatamente qualcosa di difficile; le sue basi sono sempre molto classiche, i suoi samples ancorati nel soul. Questa ultima prova non può che consolidarne la fama; manca forse una manciata di brani in grado di elevarsi ed entusiasmare su tutti gli altri, però con le sue 19 tracce Grandeur  è un disco notevole; e Detonate (con il featuring di M.O.P.) un brano magnifico, come non se ne sentono spesso.

7,6/10

Fetty wap

Fetty Wap

Il fenomeno Fetty Wap nasce con il singolo Trap Queen e lo stile di un rapper/cantante dall’aspetto inusuale e un vocione stentoreo. Il genere è una variante di trap, con ritmi medio-lenti e suoni ultrasintetici; non manca un certo senso della melodia e qualche buon momento (My Way su tutti) nel suo esordio omonimo (RGF / Atlantic), ma la simpatia che le sue storie tra romanticismo e realtà della strada può generare si scontra con la monotonia dell’insieme. Fetty Wap sceglie, come ha dichiarato in qualche intervista, di pubblicare un prodotto “fatto in famiglia”, senza featurings e contributi al di fuori  della sua cerchia. Purtroppo l’unico rapper che l’accompagna, Monty, ha capacità molto limitate e la produzione è fatta di beats semplici. Può piacere agli amanti del genere, ma per noi meglio farebbe a guardarsi intorno.

6/10

Future Drake

Future & Drake

Future & Drake si uniscono per questo What A Time To Be Alive (Cash Money/Epic), concepito come un mixtape ma poi trasformato in uscita commerciale. Miglior figura avrebbero fatto optando per la prima scelta; lontano dall’essere la somma delle sue parti, il duo allinea basi scarne, generalmente lente, e un flow monocorde. Qualche episodio (Big Rings, Change Locations, soprattutto Live From The Gutter) è più che ascoltabile, ma l’impressione di un sottoprodotto nella carriera dei due (e soprattutto, è ovvio, in quella di Drake, terribilmente ripetitivo anche nei testi) è troppo forte per farceli apprezzare. Fosse l’esordio di un nuovo rapper, come il Fetty Wap del quale avete appena letto, sarebbe comprensibile, ma da una star e mezzo è legittimo attendersi qualcosa di più.

5/10

The Game Documentary

The Game

Jayceon Terrell Taylor, meglio noto come The Game, è un rapper pieno di sorprese; nel 2005 The Documentary era stato una bella novità, il primo revival del suono e della fama di Compton. Sembrava poi essersi perso fra dischi non all’altezza dell’esordio e troppi litigi. Ha quindi scelto l’anno del trionfo di Compton (il film, il ritorno di Dr Dre) per dimostrare che non è stato poco più di un one hit wonder. Per dimostrarlo tira fuori quasi in contemporanea ben due dischi: The Documentary 2.0 e The Documentary 2.5 (Blood Money). E che dischi! Con una pletora di produttori di rilievo come Dre, Stat Quo, The Alchemist, will.i.am e altri, The Game può contare su basi pesanti; quanto alle rime, Jayceon è un rapper più efficace che spettacolare, ma i featurings non si contano.

The Documentary 2.0

In 2.0, l’iniziale On Me vede la presenza di Kendrick Lamar, Don’t Trip quella di Ice Cube e Dr Dre insieme; ma è l’episodio centrale, Dollar And A Dream, insieme ad Ab-Soul su beats di Dre, a garantire al disco un livello davvero eccelso. E poi verso la fine abbiamo Kanye West sulla breve e intensa Mula e un Drake in buona forma su 100; entrambe canzoni che potrebbero appartenere al repertorio di Kanye e Drake, il che getta un qualche ombra sulla personalità di Game,  ma il risultato resta encomiabile.

The Documentary 2.5

Il secondo episodio è aperto da una collaborazione di Anderson .Paak sulla magnifica Magnus Carlsen (lo scacchista), dove la voce soul di Paak trafigge come già aveva fatto su Compton. La prima parte di 2.5 ha molti altri momenti eccellenti; vale la pena di citare almeno The Ghetto con NAS e From Adam con Lil Wayne, dove Jayceon torna sul suo passato di Blood. La seconda metà è divertente, ma troppo smaccatamente revivalistica – ovviamente del G-Funk californiano anni 90. Resta da dire che, se The Game avesse scelto di distillare il meglio dei due e uscire con un disco di 15 canzoni, avrebbe avuto un classico. Questione di scelte, ma The Documentary 2.0 e The Documentary 2.5 ne fanno comunque uno dei protagonisti musicali di questo 2015.

8,5/10

8,2/10

Jay Rock 90059

Jay Rock

Jay Rock arriva dal collettivo Black Hippy (al quale appartengono anche Ab-Soul, Kendrick Lamar e Schoolboy Q) e soprattutto da recenti collaborazioni con il solo Kendrick Lamar. 90059 (Top Dwag Entertainment) è il suo secondo disco. Meno esplosivo e innovativo di To Pimp A Butterfly (ma questo si potrebbe dire di ogni uscita del 2015), è nondimento classificabile in un ambito non distante. Rap e soul per le basi, discorso sociale e vita del ghetto (Watts nel caso di Jay Rock) per i testi sono gli elementi che compongono 90059; che, conciso e denso, è a tratti un trionfo: per esempio nella conclusiva The Message, in Vice City (collaborazione con Black Hippy), nella title track, nella drammatica Gumbo. Ma tutto il disco è valido e si aggiunge all’ormai lunga lista di dischi  e di artisti che stanno innovando il genere dall’interno.

8/10

talib kweli 9th wonder

Talib Kweli & 9th Wonder

E’ un buon momento peri duetti, soprattutto dopo il successo di Run The Jewels. Talib Kweli & 9th Wonder  uniscono le forze per Indie 500 (Javotti Media), il primo come rapper, il secondo alla produzione. In comune hanno una carriera straordinariamente prolifica, nella quale è dunque facile trovare alti, bassi e vie di mezzo. Indie 500 si colloca nell’ultima categoria, ma ha i suoi momenti di gloria. Which Side Are You On, tra gospel e chitarre acide, sul quale Kweli fa vedere cosa sa fare, serve a mostrare il pattern del disco. Ancorato alla black music  anni 70, anche nei testi, Indie 500 rinvia al conscious rap, com’è nelle corde di Kweli. Si evitano featurings particolarmente alla moda, appoggiandosi a vecchia amici del medesimo giro, come Pharoahe Monch, o a rapper più giovani, come Brother Ali, che ne condividono l’attitudine.  In Don’t Be Afraid, dal refrain con un lieve utilizzo dell’autotune, ci si allinea su produzioni più recenti (sebbene faccia venire in mente anche NAS), con risultati davvero buoni. Insomma un altro disco non indispensabile, ma buon indice dello stato di salute del genere.

7,3/10

Mac Miller good am

Mac Miller

Difficile per un rapper bianco non essere associato ad Eminem. E’ quanto succede a Mac Miller, e non è che i nessi non ci siano, sebbene il suo recente GO:OD AM (Warner Bros) dice che il giovane di Pittsburgh ha ascoltato soprattutto 2Pac e ne ha tratto giovamento. Il disco è infatti migliore dei due precedenti,  più maturo, ricco di buoni featurings e di una produzione varia. Il singolo 100 Grandkids colpisce subito, poi seguono Brand Names, Rush Hour, il duetto con Miguel su The Weekend; ma, pur senza proporre niente di nuovo o di assolutamente eccezionale, il disco si tiene su livelli molto buoni e sottrae Mac Miller a quell’ambito di rapper un po’ per ridere che l’aveva caratterizzato finora. Non un punto d’arrivo quanto un punto di partenza.

7,2/10

PrinceHitnrun

Prince

Prince, ormai lo sappiamo, è capace di tutto. Persino di tornare in forma dopo anni di follie sui nomi e di opacità discografica. Già lo scorso anno Art Official Age aveva fatto vedere qualcosa di interessante; e ora HITnRUN Phase One (NPG) – sorvoliamo sui titoli – aggiunge nuove speranze; soprattutto se si lasciano da parte le recensioni poco attente che la stampa internazionale ha allineato: ormai, infatti, c’è l’abitudine a considerare Prince un artista del passato. In questo disco non mancano i momenti buoni: e i momenti buoni di Prince continuano a esser superiori a tante altre cose che ascolteremo quest’anno. Certo, HITnMISS potrebbe essere un titolo più appropriato, perché questo è un disco fortemente discontinuo. Ma almeno ci fa ricordare che quella di Prince sia una delle voci più incredibili degli ultimi trent’anni, e poi una ballata come This Could B Us (remix profondamente differente dall’omonima canzone del precedente Art Official Age –  certo c’è di che perdere la pazienza!) non avrebbe sfigurato in Diamonds And Pearls. Il che per noi è già abbastanza, sebbene resti la sensazione che, se volesse, Prince potrebbe ancora tirar fuori un capolavoro dal cilindro. Per ora accontentiamoci di HITnRUN Phase One.

7,5/10

Raury All We Need

Raury

Neppure ventenne, Raury si è già messo in mostra con mixtapes e collaborazioni che ondeggiano tra generi disparati. All We Need (Columbia), il suo esordio ufficiale, si incammina nella stessa direzione: indie-pop, folk , r’n’b e hip-hop  sono generi evidentemente cari al nostro, il che ne fa da un parte un artista promettente e peculiare, dall’altra un personaggio in cerca d’identità. Così Revolution sembra ispirata da Arlo Guthrie, CPU inizia come una ballata pop e prosegue (complice RZA) come dubstep. Raury canta piuttosto bene, ma su episodi come Forbidden Knowledge sfodera un flow notevole e Devil’s Whisper guarda  efficacemente al gospel condito di chitarre spagnoleggianti; mentre Crystal Express è un gioiellino di puro pop. Sono anche gli episodi migliori di un disco che fa simpatia come il suo autore, il suo volto, i testi un po’ naives. Bisogna però che si decida a intraprendere un cammino più deciso, e soprattutto a evitare episodi come la sconcertante collaborazione con Tom Morello, Friends.

7,2/10

Scarface Deeply Rooted

Scarface

Scarface ha una voce e un passato (con i Geto Boys) che chiedono rispetto. Ma per questo genere di rapper (e forse per tutti) invecchiare non è facile. Deeply Rooted  (Facemob Music, BMG Rights Management) lo fa con onore e se tutti i brani fossero come l’iniziale Rooted, con il flow incisivo del nostro e il refrain dub-dancehall (da notare il riferimento all’indimenticabile Crooked Officer dei Geto Boys), ci sarebbe da gioire. Non tutto viaggia su questi livelli, soprattutto perché a tratti la produzione del veterano N.O. Joe indulge su qualche refrain troppo dolce ( Anything, God, Keep It Movin’, Voices) poco adatto a Scarface. Ma finché l’atmosfera si mantiene sobria il disco avvince come ai vecchi tempi. Come spesso succede diciotto brani sono davvero troppi e il disco si sarebbe giovato di una scelta più oculata. Niente però che possa macchiare la fama di Scarface.

7/10

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