low anthem eyeland

low anthem eyeland

Ai classici suoni folk del gruppo si aggiunge una sperimentazione fin troppo carica

di Mattia Meirana

Tra il 2008 e il 2011 i Low Anthem erano forse tra le band più interessanti del panorama folk americano più classico. Due dischi piuttosto belli e un approccio al genere non troppo nuovo ma nemmeno troppo trito; canzoni a volte meditative, a volte galoppanti, una certa attenzione verso sonorità singolari e una sperimentazione molto cauta (dal vivo, per esempio, dei cori mandati in feedback usando telefonini). Quella che si ascoltava era una band dal senso melodico e strumentale superiore alla media, ma sempre attenta a non tradire delle radici che, immagino, iniziavano a starle un po’ strette.
Una pausa e cinque anni dopo esce il disco che spezza tutte le catene, sradica quel bosco sonoro in cui i Low Anthem si erano infognati e si butta a capofitto nella sperimentazione più selvaggia. Non che tutto il disco sia un esperimento sui suoni, anzi: i pezzi più classici, benché costruiti su basi più variegate (a discapito delle altrettanto classiche chitarre acustiche), mantengono la stessa forza suggestiva che faceva della scrittura di Ben Knox Miller qualcosa di speciale.
Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è che la sperimentazione diventa quasi insostenibile quando a un bel pezzo come In The Air Hockey Fire ne segue uno che suona esattamente come è intitolato: Wzgddrmtnwrdz.
Scritto come un concept album sulla perdita dell’innocenza (che verrà poi adattato per il teatro in un’altra fase di matta matta sperimentazione), Eyeland funziona nella sua complessità e giustifica i percorsi sonori con altrettanti percorsi narrativi, ma fa anche un po’ venire voglia di tagliare tutte quelle stronzate e godersi un bel disco folk solo leggermente sperimentale.

7/10

 

https://www.youtube.com/watch?v=EK7rSf8XNZM

In The Air Hockey Fire

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