ryley walker golden sings

ryley walker golden sings

 

Il terzo album del giovane maestro folk Ryley Walker un po’ convince un po’ no

Questo è un disco liquido e ci vorrà un po’ di tempo per farsene un’opinione compatta. Al primo ascolto annoia, al secondo entusiasma in più momenti, al terzo lascia dubbi e certezze in pari percentuale. Poliedrica capacità di stupire o problemi di messa a fuoco di un talento indubbiamente notevole?
In ogni caso va subito detto che nel corso dell’anno e mezzo trascorso dall’uscita di Primrose Green (suo secondo album) Ryley Walker ha cambiato parecchio le proprie credenziali sonore, proprio come facevano 40 anni or sono i fari ideali di quel disco, John Martyn e Tim Buckley. Forse per rispondere a chi era incuriosito dalla lontananza geografica e temporale di tali referenti, stavolta il ragazzo dell’Illinois riporta, se non tutto, un po’ di cose a casa e nelle prime note di Golden Sings… richiama alla mente la Chicago anni ’90 dei Tortoise e soprattutto del Jim O’Rourke solista: musica giocata su fluidi dialoghi strumentali, pesata al grammo ma informale quanto basta per far pensare a una jam di studio e con la chitarra di Walker inventiva tanto in versione elettrica che in quella acustica.

Le novità di Golden Sings

C’è poi un altro elemento di novità: il trovator gentile e fuori dal tempo di Primrose Green ha lasciato il posto a un giovanotto contemporaneo un po’ confuso, un po’ rivendicativo (“posso portarmi a casa qualunque testa di cazzo”) e che sfodera dubbi esistenziali del tipo “mi sa che mio padre voleva una bambina”. Siamo dalle parti di Mark Kozelek insomma, ma con molta meno prolissità e meno gravitas timbrica (un bene, forse). Se la voce non è sensazionale, ma sa comunque far arrivare i messaggi importanti, i dubbi restano sull’articolazione dei pezzi che ancora non si capisce se vogliano essere melodici senza riuscirci oppure aspirino a una dimensione più aperta dove parti strumentali e cantate si fondano una nell’altra. Il secondo tipo di amalgama funziona bene nell’iniziale The Halfwit In Me e male nella conclusiva e interminabile Age Old Tale, in apparenza strutturata per crescere a poco a poco e invece ferma su se stessa, come se i musicisti destinati a ingrossarne la circolarità si fossero dimenticati di presentarsi alla session, salvo il clarinettista che arriva trafelato all’ultimo minuto.

Comunque sia, disco da rirecensire fra un anno.

I Deep Cuts di Ryley Walker

P.S. Tanto il cd quanto il vinile sono usciti anche (o forse solo) in edizione espansa ribattezzata, chissà perché, Deep Cuts. L’interessante aggiunta è rappresentata da una versione dal vivo di uno dei brani dell’album, Sullen Mind, espanso fino alla durata record di 40 minuti, proprio come si faceva negli anni ’70. Chi pensi a una tiratona free-form si sbaglia, visto che ancora una volta tutto risulta molto controllato: lunga (19 minuti!)  intro strumentale sottotraccia che sfocia in una parte cantata appena più nervosa rispetto all’orginale, quindi nuova evoluzione strumentale che cresce a poco a poco su toni cupi (e qui Walker si dimostra davvero personale e fantasioso alla chitarra elettrica) e infine breve ritorno della strofa cantata. A questo punto l’ascoltatore è stanco e discretamente felice, soprattutto se è un (tim)buckleyano di lungo corso e lungo fanatismo: siamo infatti molto vicini alle strane versioni dei pezzi di Starsailor proposte da Tim nel 1970, dove la visionarietà sfrenata delle stesure di studio veniva sublimata in forme più sommesse ma non meno intense. Insomma, Ryley Walker riesce sempre a far parlare di sé…

7/10

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Nello scorso secolo e in parte di questo ha collaborato con Rockerilla, Musica!, XL e Mucchio Selvaggio. Ha tradotto per Giunti i testi di Nick Cave, Nick Drake, Tom Waits, U2 e altri. E' stato autore di monografie dedicate a Oasis, PJ Harvey e Cranberries e del volume "Folk inglese e musica celtica". In epoca più recente ha curato con John Vignola la riedizione in cd degli album di Rino Gaetano e ha scritto saggi su calcio e musica rock. E' presidente della giuria del Premio Piero Ciampi. Il resto se lo è dimenticato.

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