the ex bloom

the ex bloom

Dopo tanti anni la band olandese continua a evolversi e a essere potentissima dal vivo

di Massimo Pirotta

Nessuna nostalgia del passato, ma se il rock odierno è sempre più mortificato nel suo essere ripetitivo e nel suo stazionare più nel derivativo che nell’innovativo, gli olandesi The Ex sono una band in controtendenza. Non bastano le solite etichettature che qui sono originale miscela: punk e il suo post, arte dei rumori e folky, etno e jazz in libertà. Meglio due sole parole: musica evolutiva. Che per forza di cose molto deve al sound ultraveloce del cambiamento ’75-’77. The Ex: il coraggio di sperimentare, l’animosità che continua a riscaldare, le dita nervose, il cuore che batte forte, l’ardita ricerca, l’etica extra-musicale, gli sguardi sul mondo (la resistenza in Salvador, quei quattro singoli contenuti in un box e dedicati alla dignità del lavoro e molto altro). Caparbi e baldanzosi anarco-socialisti e con le loro frenesie più volte ospiti delle John Peel Sessions. Amanti del confronto a divenire, sia in studio di registrazione che dal vivo. Tante le loro collaborazioni e condivisioni: Tom Cora, Lee Ranaldo e Thurston Moore dei Sonic Youth, Steve Albini, ICP Orchestra, Chumbawamba, Peter Hammill, Tortoise, ecc. E pure un docu-film a loro dedicato realizzato da Christina Hallstrom, filmaker svedese. Arnold de Boer (voce, chitarra, samples), Andy Moor (chitarra), Terrie Hessels (chitarra) e Katherina Bornfeld (voce, batteria) salgono sul palco davanti ad un pubblico non numerosissimo ma che gli tributa tutte le attenzioni del caso. La band nel suo “tu per tu” non si risparmia. La platea ondeggia, scalpita, danza al singolare, non è mai passiva. Sul palco si eseguono allettanti brani come Last Famous Words, Top Of My Lungs, Shut Up, That’s Not Virus. Cavalcate su possibili pentagrammi, esplosioni noise, voce maschile e femminile che si alternano, chitarre pizzicate, grattugiate e suonate sulle transenne in modo che fantasia possa essere pure sinonimo di rischio (ebbene sì), il drumming potente e al femminile di Kat che pare immerso in panoramiche industrial come in echi africani, il canto di Arnold che può ricordare i Fall di Mark E. Smith. Il palco viene percorso in lungo e in largo, la band si mostra atletica in una maratona di un’ora e mezza, dove il momento clou è l’esecuzione di Double Order. Chitarre e batteria che paiono sfidarsi, il saltare in aria alla Pete Townshend. E poi: frugalità di suoni, voodoo, ipnosi, atmosfera surriscaldata, l’applauso che si dilunga ed è corale, la ripetuta richiesta di bis. Che arriveranno, più di uno. Alla fine buona parte dei presenti si fionda veloce verso il banchetto dei dischi. Per il quartetto di Amsterdam, è l’ennesima amplificazione della loro “biodiversità”.

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