alice in chains

alice in chains

di Elena Colombo

Gli Alice In Chains e la nostalgia

A quattro anni da Black Gives Way To Blue, la strega è tornata e questa volta pare che la metamorfosi sia quasi completa. Ascoltando un nuovo disco degli Alice in Chains non si può evitare di cadere nel tranello dei paragoni nostalgici che richiamano alla mente il compianto Layne Staley ma, se si riesce a uscire dall’ottica passatista, non si può negare che William DuVall ha una bella voce, granitica ma con quel timbro personale che forse è stato sufficiente a lenire le ossessioni malinconiche del chitarrista Jerry Cantrell, facendogli sfiorare i territori dell’introspezione acustica (Scalpel). Se sembra che il cantante abbia ampliato lo spettro espressivo della band, riavvicinandosi un po’ alle sonorità dei suoi Comes With The Fall, la trasformazione potrebbe magari ricordare l’evoluzione stilistica del cantante degli Slipknot, Corey Taylor, che, appesa la maschera al proverbiale chiodo, sta dimostrando di potersi avventurare su registri insospettabili. D’altronde il confronto non è sbagliato, considerando la forte influenza del produttore Nick Raskulinecz, che ha contribuito a rendere la scaletta più “solare”; infatti, la miscela eterogenea di potenza e morbidezza che caratterizza The Devil… fa pensare alle sue precedenti collaborazioni con Stone Sour, Mondo Generator, Velvet Revolver o My Ruin.

The Devil Put The Dinousaurs Here

I demoni, però, non sono ancora stati sconfitti. Dal punto di vista iconografico è chiaro già dalla copertina, su cui campeggia lo scheletro di un animale cornuto, e il concetto è ribadito nei video, che rappresentano la solitudine umana, la “fatica di vivere” e l’isolamento che diventa impotenza mostruosa, passando dal mito di Sisifo alla storia di un astronauta colpito da un morbo alieno. Hollow, scelto come primo singolo, ha una costruzione ritmica cupa e incalzante, che pare nata direttamente dalle viscere dei Melvins, mentre Pretty Done ha toni molto più leggeri, anche se sempre velenosi. Spostando gli accenti, la matrice resta comunque quella desertica /sabbathiana che, prendendo dall’esperienza del bassista Mike Inez insieme a Zakk Wylde, Ozzy e Slash, apre spiragli più melodici e caldi (Low Ceiling). Le catene non sono state del tutto sciolte e rimangono comunque tracce del grunge di Seattle e della scuola di Mark Lanegan. In definitiva, The Devil Put The Dinosaurs Here presenta un’architettura sfaccettata, vicina al lampo estemporaneo dei Mad Season più che alla pesantezza assoluta dello stoner puro. Magari è una complessità difficile da apprezzare al primo impatto, ma l’orecchio più esperto sarà in grado di identificare le tappe di un percorso sciamanico originale, sofferto e vitale.

7/10

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