Bon Jovi Burning Bridges cover giusta

Bon Jovi Burning Bridges cover giusta

Riccardo Gazzaniga (http://riccardogazzaniga.com/) è l’autore del romanzo A Viso Coperto, opera prima di ampio e meritato successo editoriale. Ora esordisce come recensore musicale per TomTomRock e ci racconta la crisi artistica (e i problemi  contrattuali) di uno dei suoi artisti preferiti.  

La mia carriera di recensore di dischi inizia oggi e inizia in salita.
In parte si tratta dei miei limiti, perché sono un forte ascoltatore, un accanito acquirente di cd anni Ottanta e un assiduo frequentatore di fiere – dove mi aggiro bramoso tipo maniaco con l’impermeabile – ma non ho dimestichezza con gli strumenti. Non ho mai strimpellato una chitarra, stono come una campana pure sotto la doccia, non distinguo un mi da un re.
Se questo non bastasse, TomTomRock mi fa iniziare con il nuovo disco dei Bon Jovi, veri idoli d’infanzia, d’adolescenza e di qualunque cosa sia l’attuale periodo della mia vita.
Una band su cui sono, per forza, di parte.
Per giunta devo affrontare un disco nuovo che, però, non è un vero disco nuovo.
“Burning Bridges è un album per i fan fatto per accompagnare le nostre 12 date del tour internazionale. Sono canzoni che non erano finite, le abbiamo finite, e alcune sono nuove come We Don’t Run che abbiamo lanciato come singolo” ha dichiarato Jon Bon Jovi e qui sorge il primo problema.
Sì, perché la band, negli ultimi anni, ha già prodotto diverse cose davvero “per fan”. Ricordiamo il mega cofanetto di b-sides e outtakes 100.000.000 Bon Jovi Fans Can’t Be Wrong e la ristampa di New Jersey con un disco intero di bonus e pure un DVD, per chi voleva davvero tutto.
Inoltre Burning Bridges non ha davvero nulla del disco per fan, neppure nella confezione: solo un compact, copertina monocolore, niente booklet, zero credits, zero fronzoli. In compenso, il prezzo non conosce sconti.
In realtà la spiegazione di quest’ album va cercata negli obblighi contrattuali nei confronti della Mercury Records, storica casa produttrice del gruppo, che – pare – avrebbe avuto ancora diritto a un disco di inediti. Allora ecco servito questo Burning Bridges, a segnare un divorzio rabbioso con la label, una roba da insulti e lanci di piatti.

Ah, check the box, yeah, mark this day.
There’s nothing more to say.
After 30 years of loyalty, they let you dig a grave.

Sono passati 32 anni dall’esordio: Jon Bon Jovi non è più l’aitante parruccone biondo, ma è diventato un aitante parruccone grigio, del bassista Alec John Such si sono perse le tracce da lunghissimo tempo (sostituito da Hugh Mc Donald, un poveraccio che in un decennio non ha ancora ottenuto il diritto di apparire nelle foto della band) e anche il “gemello” di Jon, il chitarrista-icona Richie Sambora non sta più nella band.

bon jovi giovanebon jovi vecchio
Richie ha lasciato – pare definitivamente – il gruppo dopo l’abbandono dell’ultimo tour e sui motivi della separazione i media hanno lavorato tanto di ipotesi e fantasia.
Dalla band sono trapelate spiacevoli accuse di richieste troppo esose da parte di Sambora (2 milioni di euro mensili e una percentuale sugli incassi degli show) e di problemi legati ai mai risolti casini di Richie con l’alcol.
Sambora, invece, ha raccontato del suo desiderio di fermarsi per un anno e stare con la famiglia dopo le fatiche di un lungo tour. A questa scelta la band avrebbe risposto con l’insopportabile ultimatum: massimo impegno per la macchina da guerra Bon Jovi o rottura.
E rottura è stata.

Richie Sambora

Burning Bridges dovrebbe essere, dunque, la chiusura di un cerchio. Un taglio netto al passato, a partire dal titolo. Ma si tratta, pur sempre, di canzoni non nuove, già escluse dai più recenti lavori.
E si sente.
Le coordinate musicali sono, ovviamente, vicine ai dischi in cui queste canzoni dovevano essere inserite: What About Now e The Circle, ultimi due album di studio che, già di loro, non avevano fatto gridare al miracolo.
Il solo vero inedito è We Don’t Run, pezzo che cova l’ambizione di un inno, ma rimane cartuccia esplosa a metà, come era stata Because We Can, singolo del precedente What About Now.
Qui siamo distanti pure da It’s My Life, Have A Nice Day o Love Is The Only Rule che, nella storia recente dei Bon Jovi, hanno rappresentato anthem non trascurabili. Del passato più lontano non parliamo neppure: noi fan abbiamo messo da tempo nella teca dei ricordi Slippery When Wet, New Jersey e a Keep The Faith e ci prendiamo quello che viene.
Ma, in questo caso, quello che viene è un po’ pochino.
La chitarra di Sambora manca e a sostituirlo avrebbe contribuito (usiamo il condizionale, appunto perché non ci sono credits) John Shanks, produttore della band da diversi anni, oltre che autore di molti dei brani qui inseriti.

john shanks bon jovi
A conti fatti l’ormai decennale presenza di Shanks nella storia dei Bon Jovi veleggia tra l’inutile e il dannoso. Non ha firmato pezzi davvero memorabili, i lavori che ha prodotto stanno segnando un continuo e pericoloso appiattimento e fanno dolorosamente rimpiangere i tempi di Bruce Fairbairn e Bob Rock. Anche come chitarrista, qui, non lascia segni.
Non sarà un caso che nella sola canzone del disco che ci fa battere il piedino per terra c’è ancora la penna di Sambora: Saturday Night Gave Me Sunday Morning si stampa in testa e non va via.
Molto delicata ho trovato invece Blind Love, lento facile che ricorda una ninna nanna, con quel cantato da piacione di un Jon ormai ingrigito, ma ancora seducente. Mi ha riportato ai fasti di Lie To Me, dall’ottimo These Days.
We All Fall Down è un altro brano tranquillo e parecchio canticchiabile, che potrebbe funzionare bene live, se pompato a dovere, ma difetta un po’ di mordente. Lo stesso discorso vale per l’allegra Life Is Beautiful.
Gli altri pezzi passano via un po’ indifferenti e monocordi, con qualche lento di troppo, come l’inspiegabile inizio da sbadigli di Teardrop To The Sea o la malinconica Fingertips.
Intendiamoci, restano dieci canzoni accettabili, il suono è pulito e professionale, non c’è nessuna aria da demo, però la scintilla si accende di rado.
La cosa più divertente e inattesa è il country da osteria di Burning Bridges che parla della chiusura con la Mercury Records. Qui Jon ritrova tutta la sua verve da rocker e non risparmia inattese bordate, polverizzando in poche strofe la sua ormai ex label.

Adieu, good night, guten abend
Here’s one last song you can sell
Lets call it burning bridges
It’s a sing along as well
Hope my money and my masters
Buy a front row seat in hell
Ciao, adieu, good nacht, guten abend
Play this for your friends in St. Tropez

 

I Bon Jovi dovrebbero tornare nel 2016, senza Sambora e con un album davvero nuovo.
Certo, se il futuro sarà intriso di dischi troppo dimenticabili come questo Burning Bridges e i precedenti What About Now e The Circle, noi fan speriamo che sia finita l’era dei ponti bruciati e si ricostruisca anche qualcosa.
Non parliamo solo di Richie Sambora, ma di un songwriting cui da troppo tempo mancano i guizzi del favoloso hit maker Desmond Child, coautore dei più grandi successi della band, e di una produzione che si sta appiattendo nel riproporre troppe volte lo stesso disco.
Perché va bene, noi fan non tradiremo mai i Bon Jovi, come la Mercury. Noi abbiamo scelto di invecchiare e ingrigire con loro.
Ma i veri inni da stadio per battere le mani, i lentoni da strappare il cuore e gli wooo-wooo da gridare tutti insieme, ci mancano ormai da troppo tempo.

5/10

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Autore dei romanzi "A viso coperto" (Einaudi, 2013, premio Calvino e premio Massarosa Opera Prima) e "Non devi dirlo a nessuno" (Einaudi, 2016), “Colpo su colpo” (Rizzoli 2019), oltre che della raccolta a tema sportivo "Abbiamo toccato le stelle - Storie di campioni che hanno cambiato il mondo" (Rizzoli, 2018). Il 22 settembre 2020 è uscito il suo lavoro più recente, "Come fiori che rompono l'asfalto" (Rizzoli). Da sempre appassionato di hard-rock melodico.

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