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 di Marina Montesano

Non aveva mentito Tony Visconti quando nelle interviste che hanno accompagnato il primo singolo Where Are We Now?, arrivato a sopresa a gennaio, aveva detto che il nuovo album di David Bowie, The Next Day, avrebbe avuto un suono con forti rimandi a Lodger e Scary Monsters: il che, all’ascolto della canzone, proprio non si sarebbe detto. Ma il LP è davvero un’altra cosa: l’attacco della title track ci riporta immediatamente tra 1979 e 1980 e la successiva Dirty Boys, con il suo incedere sincopato, rinvia con decisione a Red Money. The Stars (Are Out Tonight), giustamente scelta come secondo singolo e accompagnata da un video bello e divertente, è uno dei momenti più immediati del disco, con un lavoro di chitarre potente e un Bowie in gran forma. Ancora, Love Is Lost, martellante e straniante, ha un rapporto tra versi/bridge/hook  in puro stile Bowie d’annata. Il ritmo e la tensione rallentano solo con Where Are We Now?, che tutti già conosciamo, e che continua a sembrare una scelta eccentrica per presentare il disco. Con la successiva Valentine’s Day ecco un’altra sorpresa: si tratta di una delle canzoni più immediate e pop del disco, che non avrebbe sfigurato su Aladdin Sane accanto a Drive-In Saturday; la qualità della prestazione vocale è ancora una volta notevolissima, degna del Bowie dei tempi migliori; e con una certa perversità, visto il tono allegro del brano, il testo parla di un ragazzino omicida che massacra insegnanti e compagni di scuola. L’effetto ottenuto dall’organizzazione della setlist, poi, è geniale quanto straniante, dal momento che è seguita dalla dissonante If You Can See Me, e poi da un’altra perla pop: I’d Rather Be High, voce di nuovo reminiscente dei primi anni ’70 e un ritornello che vi ricorderete dopo il primo ascolto. Boss of Me ha un arrangiamento di fiati eccellente (come Dirty Boys), mentre la successiva, ritmica Dancing Out In Space, è forse il momento più debole del disco (ma leggo già che è la preferita per molti, ergo…). Con How Does the Grass Grow? siamo nuovamente dinanzi a uno degli highlight di The Next Day: godetevi, fra le altre cose, l’inclusione di Apache, il cambio a metà brano (in tipico stile Bowie: quasi una canzone dentro l’altra) e, anche qui, il contrasto fra un  testo estremamente cupo e una melodia esaltante. Un riff à la Kinks apre (You Will) Set the World On Fire, mentre You Feel So Lonely You Could Die è una ballata con arrangiamenti che probabilmente devono parecchio a Tony Visconti; potrebbe essere un’altra preferita per molti, con gli evidenti richiami a Rock’n’Roll Suicide e l’outro che riproduce la celebre batteria iniziale e conclusiva di Five Years; il testo, però, è molto poco Ziggy, mettendo in scena un immaginario di morte (I can see you as a corpse hanging from a beam) e di assenza di speranza (Death alone shall love you / I bet you’ll feel so lonely you could die). Chiude il disco la cupa Heath: “And I tell myself I don’t know who I am”, canta Bowie, ma non è un epitaffio per un disco che, pur ripercorrendo molti momenti della sua storia, con un iniziale effetto di disomogeneità, è tenuto insieme egregiamente da una magnifica produzione, dall’altissima qualità delle canzoni e da alcuni fra gli elementi che rendono David Bowie incomparabile: la voce, ovviamente, e poi una capacità di scrittura in grado di combinare melodia ed eccentricità, nonché l’abilità di risorgere e di soprendere con scelte magari non sempre ugualmente felici, ma comunque mai ovvie. In questo caso, la scelta che si rivela vincente è l’aver trovato ispirazione nel caleidoscopio di suoni, parole e immagini che è stato la sua stessa carriera; autoreferenziale spesso non è un complimento, ma nel caso di David Bowie è necessaria un’eccezione.


9,2/10

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=gH7dMBcg-gE

 

David Bowie – The Stars (Are Out Tonight)

 

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