Hearts That Strain: quarto disco per Jake Bugg.
Jake Bugg ha soltanto 23 anni e ben tre dischi alle spalle: quattro calcolando il recente Hearts Of Strain. All’inizio della sua carriera, nel 2012, era stato unanimemente salutato come una bella novità. Voce nasale che fa un po’ Bob Dylan, ma pesante accento di Nottingham. Songwriting tradizionale con un occhio agli States e storie del suburbio inglese. E comunque una manciata di belle canzoni, di quelle che colpiscono subito.
La carriera di Jake Bugg
Poi la sua storia si è intorpidita. Un secondo disco ancora buono assistito da Rick Rubin non aveva fatto l’unanimità. E da allora forse una qualche insicurezza si è fatta strada. Jake Bugg ha lasciato da parte il primo compagno di scrittura, Iain Archer, e ha voluto fare da solo. Lo scorso anno On My One era apparso confuso, ma con qualche spunto che lasciava ben sperare. E adesso questo Hearts Of Strain. Magari la prima cosa che viene da osservare è che forse varrebbe la pena di pensarci un po’ sopra, quando si produce un nuovo disco. Finora siamo alla media di uno ogni anno e mezzo.
Hearts That Strain disco americano
Hearts Of Strain vede Jake Bugg partire per l’America e affidarsi alle mani esperte di Matt Sweeney. In parte anche di Dan Auerbach, ormai già per suo conto in modalità rétro a tutto spiano. La maggior parte delle canzoni Jake Bugg se le compone da solo, per qualcuna si fa aiutare dai suddetti. Ma non ha importanza, è tutto uguale. Dimenticata l’Inghilterra, qui siamo nei territori del pop-country con tanto di arpeggi, pedal-steel, arrangiamenti eleganti quanto noiosi.
Anche le canzoni sono difficilmente distinguibili, come già detto. Qualche attacco fa ben sperare, come per How Soon Is Dawn, ma poi si adegua. E nella piattezza generale vengono fuori i difetti: la voce nasale di Jake è monocorde e difficilmente sembra interpretare davvero le canzoni. Il tutto alla fine scorre senza ferire, ma nemmeno si fa ricordare. E 23 anni sono davvero troppo pochi per generare un così scarso entusiasmo.
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