Jerusalem In My Heart, Gerusalemme nel cuore.
La carriera artistica del libanese di stanza a Montreal, dove si è trasferito da ragazzino, Radwan Ghazi Moumneh, in arte Jerusalem In My Heart (progetto che condivide con il filmmaker Charles-André Coderre che lo supporta soprattutto nelle performance dal vivo), giunge ora al suo quarto capitolo. Continua così il viaggio verso le radici della musica e della cultura della sua terra natia. Un legame fortissimo quello che Moumneh mantiene con la sua terra, e il nickname scelto ne è la prova più evidente. Così giova ricordare come nella retrocopertina del suo disco precedente Jerusalem In My Heart abbia messo la foto dei quattro bambini palestinesi uccisi da un razzo israeliano mentre giocavano a pallone sulla spiaggia di Gaza nel 2014. Sulla stessa linea si collocano sia la copertina di Daqa’iq Tudaiq sia i video, che sono parte integrante delle canzoni stesse.
La tradizione rivisitata di Daqa’iq Tudaiq
Il disco, come i precedenti, esce su Constellation, ed è suddiviso in due parti distinte. La prima è intitolata Wa Ta’atalat Loughat Al Kalam, ovvero “Il linguaggio è stato abbattuto”. Ripropone la rilettura di un classico della canzone egiziana, Ya Garat Al Wadi, composta da Mohammad Abdel Wahab nel 1928. Per l’occasione Jerusalem In My Heart si è fatto accompagnare da un’orchestra composta da strumenti tradizionali suonati da quindici elementi e diretta da Sam Shalabi (Land of Kush) che ha curato anche gli arrangiamenti. La composizione, pur rispettosa delle linee melodiche originali, utilizza l’elettronica rendendo il brano, che nell’originale è di forte intensità sentimentale ed emotiva, più contrastato e inquieto.
Daqa’iq Tudaiq e la cultura mediorientale
Anche il testo (il titolo originale significa “Oh, il vicino del villaggio” e allude agli ammiccamenti fra due innamorati), viene manipolato da Moumneh per indicare come oggi l’amore non possa esprimersi pienamente. Anzi fra guerre e plumbei scenari politici è spezzato, rotto. Non mancano nemmeno riferimenti alla diaspora araba. Il tema dell’amore diventa così anche e soprattutto un tema politico. Musicalmente questi primi quattro movimenti in cui è suddivisa la composizione rappresentano una sorta di riflessione sulla musica mediorientale fra rispetto della tradizione, sia nell’uso delle scale sia nel canto solista di Moumneh, accorato e drammatico, e un mai invasivo intervento dell’elettronica e degli effetti, in particolare distorsioni e riverberi. Il tutto risulta così molto attuale.
L’anima sperimentale di Jerusalem In My Heart
Atteggiamento in fondo ribaltato nella seconda parte del disco, dove le composizioni originali eseguite tutte dal solo Moumneh partono da un approccio sperimentale e d’avanguardia sul quale intervengono elementi e suoni tipici della tradizione, per esempio il buzuk. Bein Ithnein (Fra i due) è un susseguirsi sottile e insinuante di droni che si accavallano, si ostacolano, si rincorrono in un fluire orizzontale di sonorità su una ritmica tanto martellante quanto disturbante, mentre un suono melodioso, tipicamente orientale stenta ad affiorare dal magma sonoro.
In Thahab, Mish Roujou, Thahab le voci sembrano trarre ispirazione da un melodioso e ipnotico salmodiare – da muezzin, da ambulante – e vengono distorte, strozzate, lacerate. Layali Al-Rast è invece un bellissimo strumentale per buzuk e percussioni non esente da influenze indiane. Sembra di ascoltare un raga, ma più energico e in irresistibile crescendo. Kol el ‘Aalam O’ Youn chiude il lavoro sempre nella direzione dell’ incontro fra tradizione e sperimentazione.
Oltre Jerusalem In My Heart, una scena musicale vitale
Non si immagini però di trovarsi davanti a un disco difficile. Jerusalem In My Heart possiede un gusto raffinato per la melodia accentuato dalla sua ricerca continua delle radici mediorientali, alle quali attribuisce anche un incontestabile valore politico. Le sue canzoni visionarie e psichedeliche ci trasportano verso un universo musicale e culturale ricco e incredibilmente creativo. Che, come dimostrano gli eccellenti lavori di Nadah El Shazly, Ammar 808 o The Dwarfs of East Agouza, ha moltissimo da dire alla contemporaneità e dimostra la vitalità di una scena musicale sorprendente, aperta agli influssi più diversi.
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