Zola Jesus: le catene di Okovi.
Okovi, in slavo significa catene, è il nuovo album di un personaggio, a tratti inquietante, ma con un suo discutibile perché. Definito da una certa stampa britannica “l’album più macabro dell’anno”, Okovi segna il ritorno di Zola Jesus a tre anni di distanza dal poco apprezzato Taiga.
Zola Jesus e l’arte della pesantezza
Nika Roza Danilova, in arte Zola Jesus, non si è mai risparmiata in sperimentazioni e artifici stilistici segnati da un’inequivocabile lato dark-depressivo. L’artista americana di origini russe, non ha mai scalato le classifiche e se ci ha provato il risultato è stato deludente.
La signorina Jesus inizia a comporre e a sperimentare precocemente. I primi lavori ufficiali mostrano le intenzioni già dai titoli: Stridulum (2010), considerato da NME un capolavoro dark e Conatus (2011).
Tra dolori esistenziali e introspezioni musicali infarcite da sofferenze personali, l’artista viene incasellata in un genere cangiante. Qualcuno parla di Lo-Fi-Gothic, altri rispolverano il termine No-Wave. In ogni caso si capisce che un valore artistico c’è, nonostante il successo di pubblico sia relegato a una nicchia di fan.
Zola Jesus sa come maneggiare diversi strumenti e riesce ad assemblare brani o persino suite in cui si coglie una personalità di un qualche spessore. Il problema è la mancanza di crescita e anche i dischi degli ultimi anni, Versions e Taiga, non spostano di tanto la cifra stilistica originaria. Atmosfere cupe e tenebrose continuano a popolare i brani proposti e la pesantezza dell’insieme diventa un marchio di fabbrica.
Okovi. Più o meno la solita storia
E anche stavolta il mondo “emo” esulterà. Dopo un (altro?) periodo difficile, Zola Jesus si isola nelle campagne del Wisconsin, dove è cresciuta, per partorire un nuovo capitolo intriso di difficoltà personali accompagnate da adeguate atmosfere. Il contatto con la natura, il dolore della perdita e i traumi che hanno segnato la vita della nostra vengono serviti su un piatto grondante di suoni ridondanti rigorosamente in “minore”.
In mezzo a questo macabro banchetto spiccano due “canzoni”. L’ascoltatore non avvezzo al genere, dopo essersi annoiato nella migliore delle ipotesi, può risvegliarsi e pensare a quando Björk era una cantante quasi pop. I brani in questione sono Soak e Veka. Due piacevoli intermezzi industrial- elettronici che fanno pensare che, volendo, anche Zola Jesus un giorno ce la potrebbe fare. Ma sono due pezzi su undici. Troppo poco al momento. La depressione è una malattia, non tutti i “matti” diventano automaticamente “artisti”e il “famolo strano” ha già fatto il suo tempo.
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