Lemon Twigs Do Hollywood recensione4AD/Self - 2016
Lemon Twigs Do Hollywood recensione
4AD/Self – 2016

“One of Elton’s favourite new bands…” Un complimento via Twitter che per i Lemon Twigs rischia persino di essere controproducente. Nulla di più terribile che immaginare dei piccoli Elton John rivisti in chiave talent.

I giovanissimi Lemon Twigs suonano la musica di padri e nonni in Do Hollywood

Per fortuna  Brian e Michael D’Addario non sono questo. I due fratelli di Long Island, New York,  sono figli d’arte (come vedremo) con trascorsi dai baby attori. Hanno rispettivamente 19 e 17 anni e il loro album d’esordio, Do Hollywood, è stato accolto molto bene. In realtà di giovane i Lemon Twigs hanno solo l’età. La musica che suonano riprende per prima  cosa i Beatles di Let It Be  con cori alla Beach Boys. Poi passa agli anni ’70 intricati di Todd Rundgren e Steely Dan e a quelli più da supermercato di Toto ed Electric Light Orchestra. Non mancano tocchi dell’unico genere musicale a definizione postuma: lo sciabordante yacht rock di Kenny Loggins e Michael McDonald. Ah, spunta pure qualche accenno prog nell’accezione americana del termine, cioè i Kansas. Insomma, oltre i primi Eighties non si va e i termini di riferimento non sono proprio rassicuranti. Inoltre si percepisce il rischio del gruppo tutto hype e niente sostanza.

Alla prova dell’ascolto il risultato è sicuramente barocco e brillante. Anche sicuramente nostalgico e preoccupante. E’  come se i due avessero sinora vissuto in una bolla temporale in cui il rock odierno non esiste. Il pensiero diventa persino inquietante se si recuperano le canzoni incise dal padre dei due, Ronnie D’Addario, a metà anni ’70. Più lineari, più melodiche, ma il suono quello è. Che sia stato proprio il babbo a segregare in casa i figlioli proibendo loro ogni ascolto di musica incisa dopo il 1982? (In tal caso mezzo minuto di Kendrick Lamar avrebbe l’effetto di un elettroshock…)

Ma Do Hollywood è anche un disco modernista

Più seriamente, Do Hollywood è definibile come nostalgia modernista. La rete dà la possibilità di accesso a qualunque fonte sonora. E se si è giovani e curiosi si desidera ascoltare tutto e alla fine tutto si confonde. Ma se si è anche intelligenti e/o talentuosi quella confusione ritorna sotto forma di canzoni anfetaminiche e ormonalmente agitate che non riescono a stare ferme in un posto e nel giro di un attimo cambiano atmosfere, registri, suggestioni. Diciamo Van Dyke Parks a velocità triplicata, come i tempi richiedono. Si prenda ad esempio These Words che inizia super-sentimentale dopodiché uno xilofono dà il via a un arrangiamento pirotecnico e caleidoscopico. Oppure Haroomata che relega un gran guizzo melodico nei 20 secondi finali.

Lo spirito è quello di altri giovani schizzati quali i Foxygen di Jonathan Rado (non a caso produttore di Do Hollywood) o, in altro contesto, i DIIV di Zachary Cole Smith. Come per i cuginetti sonici, a breve potrebbe entrare in scena una componente di autoparodia. Che anzi già aleggia considerando il modo in cui si conciano i nostri. Per il momento comunque meglio non gufare e godersi l’album più divertente del 2016 e canzoni che in versione live suonano già come piccoli classici. Il futuro è dietro due paia di occhiali rigorosamente a specchio.

The Lemon Twigs - Do Hollywood | Recensione Album
7,4 Voto Redattore
7 Voto Utenti (1 voto)
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Nello scorso secolo e in parte di questo ha collaborato con Rockerilla, Musica!, XL e Mucchio Selvaggio. Ha tradotto per Giunti i testi di Nick Cave, Nick Drake, Tom Waits, U2 e altri. E' stato autore di monografie dedicate a Oasis, PJ Harvey e Cranberries e del volume "Folk inglese e musica celtica". In epoca più recente ha curato con John Vignola la riedizione in cd degli album di Rino Gaetano e ha scritto saggi su calcio e musica rock. E' presidente della giuria del Premio Piero Ciampi. Il resto se lo è dimenticato.

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