In certi momenti Home di Wallis Bird fa pensare al disco di un’altra irlandese, At Swim di Lisa Hannigan. Solo che il primo è un disco felice, il secondo lo è molto poco. Però At Swim è più bello, a dimostrazione che il male di vivere è fonte d’ispirazione imbattibile. Sentenziato questo, occorre precisare che Home è comunque un lavoro pregevole e perde il confronto soprattutto per questioni di produzione.
In realtà non è che la bionda Wallis (34 anni, nativa di Enniscorthy) abbia avuto una vita serena. Diversi anni fa, un tagliaerbe le recise cinque dita della mano sinistra. Quattro le vennero riattaccate dopodiché iniziò a suonare da mancina una chitarra con le corde destrorse. Negli ultimi dieci anni è stata cittadina d’Europa (una cosa fuori moda, ormai) peregrinando fra Dublino, Londra, Mannheim e Berlino dove oggi vive.
Home è il disco felice dell’inquieta Wallis Bird
Finora il suo album migliore era considerato il terzo, omonimo. Un disco da cantautrice folk un po’ alla Ani Di Franco, acre, spiccio e nervoso, forse perché in buona parte scritto a Londra nel bel mezzo delle riots del 2011. Meno riuscito era stato il successivo Architect, specie per qualche eccesso elettronico.
Ora Home è salutato come un nuovo punto d’arrivo, quantomeno dai patriottici siti irlandesi. Di certo è il lavoro più bello di Bird dal punto di vista compositivo. Home si può definire, fin dalla copertina, un lungo inno all’amore realizzato, al cielo sentimentale rasserenato dopo anni di nuvoloni. Questo dunque è il tratto unificante concettuale.
Una varietà di suoni interessante ma forse eccessiva
I problemi, come anticipato, cominciano subito dopo. L’iniziale Change è avvolgente ed essenziale: voce, piano e una sommessa pulsazione ritmica. La successiva ODOM vira verso l’elettronica con lo stesso effetto straniante di alcuni momenti dell’ultimo John Grant. Il resto del disco prosegue lungo questo itinerario di curve a gomito stilistiche, fra ballate meditative, inni sghembi, strappi quasi funk e mid-tempo da radio anni ‘80. A metà programma spunta addirittura un momento per sola voce (la title-track) che suona come un omaggio (o un addio) alle radici folk irlandesi.
Va detto che, dopo la perplessità iniziale, il puzzle sonico viene ricomposto grazie al pregevole livello della scrittura e a una voce più duttile e meno aspra di prima (eh, l’amore…). E comunque, nell’anno dei molti dischi dolorosi (oltre a David Bowie e Nick Cave anche Bat For Lashes) un po’ di serenità non guasta.
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