john vignola

 john vignola

In questa puntata della sua rubrica, il giornalista (Il Mucchio, Vanity Fair) e conduttore radiofonico (Radio 2) John Vignola spiega come quel che ci appare  valido razionalmente a volte risulti difficile da apprezzare emotivamente. Come esempio ‘personalizzato’ cita i Sigur Rós.

“No, non è che non mi piacciano i Sigur Rós. Diciamo che loro procedono in circolo mentre io prendo sempre curve piuttosto secche. Insomma, due approcci alla vita piuttosto diversi fra loro. Proprio questa distanza, diciamo così, esistenziale ha fatto sì che le tre occasioni in cui mi è capitato di entrare in contatto con il gruppo abbiano sortito effetti piuttosto curiosi.
La storia comincia con il loro primissimo concerto italiano. Neanche il crowd surfing più sfrenato e continuativo mi avrebbe lasciato in condizioni altrettanto pietose: la musica era decisamente impressionista, così impressionista che avevo l’impressione di potermi addormentarmi da un momento all’altro. Alla fine mi trovai con la guancia gonfia per i pizzicotti anti-Morfeo e con la schiena messa a dura prova dal gomito del tipo che mi stava alle spalle. Quanto al gruppo, pensai che aveva un’attitudine un po’ ‘puffa’ (statura non eccessiva, aspetto da bravi ragazzi laboriosi e poco trendy), ma con un batterista alla John Bonham che ogni tanto entrava in scena rovinando il delicato torpore dell’atmosfera. Tanto tripudio di contrasti mi impedì di dormire per le 24 ore seguenti.

sigur ros puffi
Il successivo incontro, stavolta un vero faccia a faccia, fu nel 2002 per un’intervista a Milano in occasione dell’uscita del secondo album, quello intitolato (). Io mi trovai a colloquiare con due componenti del gruppo insieme ad Antonio Vivaldi, guarda caso uno dei collaboratori di questo sito, e la situazione prese subito una piega paradossale. I due giovani islandesi si produssero in una pièce teatrale che potremmo definire ‘gentilezza monosillabica’. Quindi, Antonio e io cominciammo a conversare fra noi di musica (in inglese, naturalmente) cercando di suscitare il loro interesse. Iin effetti, interessati lo sembravano: ascoltavano, approvavano con cenni del capo e… tacevano. Poi, il colpo di scena: uno dei due si fece portare dell’acqua calda in cui immerse un cubetto di aglio pressato e d’improvviso parlò, spiegando che si trattavai di un eccezionale rimedio contro il mal di testa appreso dalla nonna. Date le mie emicranie croniche, mi interessai immediatamente alla cosa e ricevetti precisi consigli per la preparazione del salvifico intruglio. Ci salutammo tutti e quattro con grandi strette di mano e grande simpatia reciproca, ma, per quanto mi riguarda, senza alcunché di musicalmente rilevante da trascrivere. Purtroppo, anche l’aglio antiemicranico non venne mai testato.C’est la vie.

Facciamo un salto in avanti nel tempo fino al settembre 2011, quando ritrovai i Sigur Rós su un palco importante come quello della Mostra del Cinema a Venezia. Loro presentavano il docufilm Inni e io presentavo loro. Beh, non proprio tutti loro; anche stavolta erano in due (più il regista Vincent Morisset). Mancava la star del gruppo, il cantante Jón Thor Birgisson, in arte Jónsi. ‘Dov’è Jónsi?’, chiesi. Mi risposero ‘È in albergo’ e poi aggiunsero, in tono ancor più basso rispetto al solito, qualcosa tipo ‘è in punizione’. Come qualche tempo prima, ma in questo caso davanti a un folto pubblico, il dialogo prese subito contorni surreali. In realtà, il regista era l’unico dei tre a parlare davvero e così  domandai a lui perché il film fosse in bianco e nero: ‘Lo ha deciso il gruppo’. E il gruppo: ‘Il film è in bianco e nero perché i colori ci fanno paura’. E questo fu quanto di più articolato riuscii a ottenere dai due che, naturalmente, furono cortesissimi ed educatissimi (magari anche affabili, secondo un punto di vista islandese).

sigur simpson
Arrivando all’oggi e al nuovo album Kveikur, sinceramente non trovo vi siano quelle grandi novità di cui si legge. Certo c’è più nerbo o, come dice qualcuno, un suono più pop, e si ascolta di più la voce di Jónsi. A bene vedere anche questo, come i dischi precedenti, procede in circolo, legato com’è al consueto immaginario fra psichedelia, art rock e, secondo qualcuno, ‘cow-punk islandese’ (senza pensare che in Islanda ci sono pecore e non mucche). L’impressione è quella di assistere dall’esterno a un ipnotismo che si svolge entro questo spazio chiuso. I seguaci diventano una parte del circolo e davanti a loro diventa bestemmia criticare i Sigur Rós. I circoli o li spezzi o li accetti.”

 

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