John Vignola racconta l’Italia sonica 2018 e un po’ si preoccupa.
Se l’anno scorso c’eravamo sbilanciati verso un giudizio speranzoso nei confronti della musica che gira intorno alle canzoni qui in Italia, il 2018 sembra essersi un po’ inceppato in questo girotondo. Spieghiamoci meglio.
La cosiddetta trap
Avevamo lasciato il 2017 con la consapevolezza che il rilancio su folk, hip hop, rap nella scena nazionale fosse riuscito a intercettare vie come minimo stimolanti. Ci ritroviamo nel 2019 con la stessa sensazione, che però non ha dato alcun frutto davvero significativo. Da un lato, la cosiddetta trap ha coperto ogni produzione che affianchi l’hip hop a qualsiasi altro linguaggio, meglio se a ruota libera. La distinzione tra mondi apparentemente lontani quali quello di Ghali, Gue Pequeno, Coez, Sfera Ebbasta, Carl Brave si sta annullando a favore di un pop sempre più informe e magari fatto di qualche frase ad effetto, sboccato quanto basta per i più giovani e raffinato il giusto per i più smaliziati. In sostanza una massa di produzioni quasi intercambiabili per cui la critica usa solo un’etichetta, ovvero trap, lavandosene accuratamente le mani e procedendo oltre.
L’Italia pop e il confronto con il resto del mondo
Cambiando ambito, sicuramente il 2018 ha avuto in dote un pugno di album che diventeranno classici del pop. Piacciano o meno, i dischi di Cesare Cremonini, Elisa, forse pure Marco Mengoni hanno una loro individualità che li smarca dal territorio circostante. Tutto il resto non è noia, magari, ma certamente una ripetizione del medesimo cliché che non ci permette di fare passi significativi in ‘avanti’. Mentre altrove nel mondo musicale si ritorna sempre di più a un miscuglio tra folk, rock e radici assortiti (e quello che qui chiamiamo trap è già stato oltrepassato) da noi bisogna applaudire una teen band ‘arrabbiata’ come i Måneskin per uscire a respirare un’aria un po’ più libera. Buona fortuna.