Franco Zaio e gli Hüsker Dü: Those Important Years.
Franco Zaio è un maître à penser di lungo corso di quella scena alternativa italiana che si è mossa (e si muove) fra punk, post-punk e psichedelia. A questa tipica miscela indie Zaio aggiunge una componente letteraria che gli deriva anche dal suo mestiere ‘serio’: il libraio. Per dare un’idea del campo d’azione del nostro possiamo spiegare, ad esempio, che ha dedicato un album-tributo ai Clash (Know Your Clash) e un altro a un personaggio apparentemente assai diverso, Cesare Pavese (Last Blues). Poi ci sono stati i due dischi dal fascino obliquo e slowcore a nome Anaïs (insieme a Francesca Pongiluppi) e la militanza come batterista ne I Fenomeni, vivace combo psichedelico autoammantatosi di leggenda (“Eravamo un po’ i Dukes Of Stratosphere italiani”).
Da poco Franco Zaio, in questo caso Francö Zaiö, ha pubblicato un omaggio a una delle band da lui più amate: gli Hüsker Dü. Negli anni ’80 il trio di Minneapolis (Bob Mould, Grant Hart – scomparso nel 2017- e Greg Norton) ha rappresentato l’aspetto più viscerale, acre ma anche struggente del circuito alternative e ha fatto da guida a decine di giovani fan con chitarre nervose e ritmica travolgente. Il cd si intitola Those Important Years, citazione con variazione di una delle canzoni più intense degli Hüskers, These Important Years. Contiene 14 pezzi in veste quasi del tutto acustica, quindi con ardito cambiamento di approccio rispetto alle stesure originali, e un solo momento ‘rumoroso’ collocato a fine programma.
Non prima di aver ricordato che Franco Zaio è valente collaboratore di Tomtomrock, gli lasciamo ora la parola affinché ci racconti un po’ di cose a proposito di Those Important Years.
Ci vuole un certo coraggio ad affrontare in chiave sostanzialmente acustica il repertorio di un gruppo di grande impatto sonico come gli Hüsker Dü. Hai mai pensato “ma cosa sto facendo?”
No, perché è un esperimento già fatto con i Clash anni fa… Mi sono sempre piaciute le versioni unplugged dei gruppi rock. E anche come Johnny Cash “denudava” le cover che faceva. Mi rendo conto che ci vuole coraggio, soprattutto se non si è Johnny Cash…
La scelta dei pezzi come è avvenuta. Ci sono outakes o assenze forzate?
Sono rimaste fuori molte canzoni amatissime (su tutte Whatever e Makes No Sense At All) che non “venivano fuori” come volevo o non avevano una melodia precisa (molti pezzi furiosi di Zen Arcade, per esempio). È rimasta fuori anche Celebrated Summer perché già magnificamente coverizzata da Mark Kozelek…
Un merito del tuo disco è quello di avere messo in evidenza la naturale melodicità di pezzi come These Important Years o Sorry Somehow, perfetti anche per la chitarra acustica. Non pensi che potresti avere successo come Hüsker Busker?
In effetti inizialmente il titolo era BÜSKER DÜ! Poi però ho messo più chitarre e strumenti che nel disco sui Clash: quello sì era solo chitarra e voce! Ma ho voluto fare una cosa più “piena”, meno scarna.
Se pensassi a una qualsiasi forma di successo musicale non farei queste cose. Alla mia età, suvvia! Per me “successo” significa fare cose che mi garbano, che mi emozionano, sperando (ma neanche tanto) che garbino ed emozionino anche altre persone.
In due pezzi si ascolta la voce di Francesca Pongiluppi. Una scelta interessante se si pensa al suono molto aspro degli Hüsker Dü.
Con Francesca collaboro da quasi 20 anni, ho fatto due dischi come Anaïs e diversi concerti. Anche con lei ho sempre fatto cover unplugged o scarnificate. La sua partecipazione è la ciliegina sulla torta, e come sempre il pezzo cantato da lei sarà il più apprezzato. Successe anche in Last Blues, il mio disco sulle poesie di Pavese.
Mi incuriosisce (e mi piace) l’idea del sitar per Book About UFOs. Come ti è venuta in mente?
Il testo parla di una ragazza che passa le giornate a leggere libri sugli UFO e a guardare il cielo, e di omini grigi che la guardano negli occhi coi loro telescopi… Quindi ho immaginato ci stesse bene un tappeto di sitar psichedelico alla Beatles. Penso che Grant Hart avrebbe apprezzato questo arrangiamento.
Bed Of Nails è l’unico pezzo ‘distorto’ e sta in chiusura di disco. Piccolo sfogo elettrico finale dopo tanta chitarra acustica?
Il testo di Bed Of Nails (letto di chiodi) è particolarmente doloroso e straziante, per me. Quindi ho fatto scatenare Berna con la sua metal machine guitar, e distorto il più possibile chitarra e voce. Più che uno sfogo è un urlo disperato, una richiesta di aiuto soffocata dal rumore, un altoparlante tritato dallo sfasciacarrozze.
Sei riuscito a far avere il tuo disco a Bob Mould? O a Greg Norton che non se lo fila più nessuno?
Non ancora, né a Bob né a Greg. Voglio farlo, ma non essendo “social” sarà complicato, soprattutto per Greg! Bob lo vedrò al suo prossimo concerto, glielo consegno a mano…
Altri artisti a cui vorresti rendere omaggio?
Con Francesca abbiamo in programma da sempre due “tribute” in stile Anaïs (ossia al rallentatore, acustici e quasi silenziosi): Smiths e Cure. Si possono già sentire su YouTube come gli Anaïs suonavano There Is A Light That Never Goes Out e Boys Don’t Cry.
Personalmente invece farò nel 2020 i Joy Division. Addirittura pensavo di tradurre i pezzi in italiano, ma è una impresa titanica rendere in italiano la poeticità e la profondità delle parole di Ian Curtis. Spero di farcela.
La solita domanda: il rock e i giovani d’oggi. Hai dato, o cercato di dare, un’educazione rock ai tuoi figli? Ascoltano gli Hüsker Dü?
I miei figli sono cresciuti a pane e rock, ascoltando/assorbendo la musica che sentivo a casa e in auto. Devo aver seminato abbastanza bene, considerato il fatto che grazie a loro ho scoperto i Radiohead, i Sigur Ros, gli XX… C’è stato negli anni un bellissimo scambio di storia da me e aggiornamento da loro. Molto utile nella loro formazione musicale i suggerimenti di YouTube e Spotify (“Potrebbe piacerti anche”).
Credo che il problema principale dei giovani d’oggi nell’approccio alla musica rock siano i suoni: vedo che sono poco portati ad apprezzare le chitarre e gli strumenti acustici e molto più propensi ai suoni elettronici. Sono quasi infastiditi dalle chitarre distorte degli Hüskers…
D’altronde io da ragazzino detestavo i suoni pomposi e pop degli anni 70 preferendo l’espressività grezza ed essenziale del punk-rock e del reggae… Dopo gli anni 80 di plastica tornarono le chitarre del grunge; sono bioritmi del gusto musicale. Forse i miei nipotini torneranno al twang e al fuzz, chissà.
Domanda finale da risposta secca: Bob Mould o Grant Hart?
È come chiedere a un Beatlesiano se preferisce Lennon o McCartney: è l’accoppiata a fare la bellezza! Mould e Hart separati non hanno mai raggiunto la bellezza degli Hüsker Dü, soprattutto Hart (Mould invece ha sfornato molte canzoni superbe da solo o con gli Sugar).
Come musicista preferisco Bob, come persona mi sta(va) più simpatico Grant, batterista svalvolato e basso profilo, il Ringo Starr del punk psichedelico!