La storia di uno dei più bei dischi di Bob Dylan e del XX secolo: Blood on the Tracks.
“Amarti è l’unica cosa di cui non mi pentirò mai”
Bob Dylan non ha mai scritto versi così dolorosamente sinceri, strazianti e amorevoli come quelli che, a metà degli anni Settanta, fissarono il travaglio per la fine del matrimonio con Sara Lownds. Nata Shirley Marlin Noznisky, o Novoletsky come sostenne la suocera Beattie Zimmerman, prima moglie del cantautore per dodici anni e madre dei suoi primi quattro figli (in seguito, tra innumerevoli relazioni, Dylan si sarebbe risposato e avrebbe divorziato altre due volte mettendo al mondo almeno un’altra figlia, anche se c’è chi sostiene che di figli ne abbia dieci), Sara fu definita “una delle più amabili creature del mondo femminile” dall’ex marito quando, nel 2004, pubblicò l’autobiografia Chronicles Volume 1. Di lei parlano versi definitivi come quelli dell’inno Wedding Song nell’album Planet Waves, 1974: “Non è mai stato mio dovere rifare il mondo intero /né intendo suonare la carica per la battaglia /perché ti amo più di tutto con un amore inflessibile /e se ci fosse l’eternità, ti amerei anche là”.
Il fantasma della “moglie mistica” avrebbe resistito a lungo: “Siamo stati sposati per molto tempo e nessuno nella mia famiglia, credo, ha mai divorziato, quindi all’inizio è stato un po’ uno shock. Voglio dire, non penso che abbia davvero qualcosa a che fare con i sentimenti. La amo ancora e sospetto che lei mi ami ancora. Semplicemente non siamo più sposati”. Sara interpreta se stessa, in un suggestivo e surreale ménage a trois con lo stesso Dylan e Joan Baez durante la Rolling Thunder Revue del ’75, nel caotico film Renaldo and Clara, sugli schermi tre anni dopo, diretto, sceneggiato e interpretato da Sua Bobbità. Nel ‘76, nell’album Desire, Dylan avrebbe dato il nome della moglie perduta “così facile da guardare /così difficile da definire” alla sua canzone probabilmente più esplicita e personale.
Sara nella storia (del rock)
Nelle innovazioni dell’industria discografica Sara Lownds figura come la musa che ispirò Sad Eyed Lady of the Lowlands, la prima canzone a occupare un intero lato d’un long playing. Nella fattispecie, il quarto di Blonde on Blonde, a sua volta il primo doppio album nella storia del rock (qui mi fermo: se l’autore ha riempito nel 2015 diciotto cd per raccontarne la genesi nel dodicesimo volume delle Bootleg Series, The Cutting Edge 1965-66, ci potrei ricavare almeno un bignamino). Se per Dylan fu “probabilmente la migliore canzone che abbia mai scritto”, Tom Waits affermò: “È un sogno, un indovinello e una preghiera”. Roger Waters, invece: “Diventa sempre più ipnotica ogni volta che la senti”.
Ebrea come Dylan i cui nonni paterni, originari della Turchia, venivano da Odessa, mentre quelli materni erano lituani, Sara era figlia d’un rigattiere bielorusso e di una russa. Moglie del fotografo Hans Lownds da cui ebbe Maria, in seguito adottata da Dylan, conobbe il cantautore grazie all’amicizia con la moglie del suo manager Albert Grossman (1926-1986), Sally, che è la donna in rosso nella copertina di Bringing It All Back Home, 1964.
Il gossip narra che Sara se ne andrà, divorziando nel 1977, a causa dell’incapacità di Bob a esserle fedele. I due si riconcilieranno e nel 1982 si recheranno a Gerusalemme per la cerimonia ebraica della maturità civile e religiosa (bar mitzvah) del figlio Jakob. In quell’occasione Sara scattò la foto di Dylan chino a toccare la terra, con la città sullo sfondo, che compare nella busta interna dell’album Infidels. Si parla di nuove nozze, ma la notizia non avrà seguito e lei, sollevata da preoccupazioni economiche nonché, si dice, vincolata a un accordo di riservatezza, ha mantenuto da allora un basso profilo. Poco meno di due anni più anziana dell’ex marito, oggi è una tranquilla ottuagenaria lontana dai riflettori. Jakob Dylan, diventato noto nel panorama rock con il gruppo Wallflowers negli anni Novanta, ha rivelato al biografo Michael Gray che Bob e Sara non hanno resistito come coppia, ma sono stati dei bravi genitori.
Il maestro che insegnò a mescolare il tempo
“Ha riunito in me testa, mani e occhi in modo da permettermi di fare consciamente ciò che percepivo inconsciamente”. Dylan lo disse di Norman Raeben (1901-1978), insegnante di pittura e di filosofia ebraica che conobbe nell’aprile 1974 grazie a un amico di Sara che gliene parlò. Nel suo studio sulla 57a Strada di New York, all’undicesimo piano del palazzo della Carnegie Hall, il settantatreenne Raeben, che in gioventù aveva conosciuto Picasso, Modigliani e Chagall, teneva corsi di ebraismo, pittura e comprensione pittorica. Non sapeva chi fosse il cantautore. Frequentando quei corsi per cinque giorni la settimana, dalle otto e trenta del mattino alle quattro del pomeriggio, per due mesi, Sua Bobbità imparò, parole sue, a vedere la narrazione dei suoi testi “non in termini rigorosamente lineari” ma mischiando “passato, presente e futuro così da ottenere un punto focale più solido e unitario sugli argomenti trattati”.
Norman Raeben, il cui vero nome era Numa Rabinovitz, era il figlio minore di Shalom Rabinovitz. Più noto come Shalom Aleichem, fu il padre fondatore della moderna letteratura yiddish. La metodologia appresa Dylan l’applicò ai testi del nuovo album: autobiografici sì, ma funzionanti su più livelli. Sembra quasi che l’artista allora trentatreenne, giunto a un crocevia della sua esistenza, avesse scelto di fare un bilancio sentimentale della sua vita. Il matrimonio in crisi lo rende un uomo ferito acuendone la sensibilità e la sincerità, appena mascherate nel resoconto poetico. Da qui il crudele titolo polisemico: sangue sulle tracce. Ovvero: sangue sulle canzoni.
Le registrazioni di New York
Bob Dylan pubblicherà Blood On the Tracks, il suo più grande disco degli anni Settanta e tra i quattro o cinque tra cui scegliere il suo migliore, se mai ci fosse, il 20 gennaio 1975. Lo farà con la sua storica etichetta discografica, la Columbia, che aveva lasciato per fare i due album precedenti con la Asylum, fondata nel ’71 da David Geffen, manager di Laura Nyro e di Crosby, Stills & Nash, insieme a Elliott Roberts (1943-2019) che lo era di Joni Mitchell e di Neil Young.
Il cantautore inizia a provare a settembre del ’74 agli A&R Studios di New York avendo già in mente le canzoni che costituiranno il disco. Quello che resta indeterminato è il suono. Lo immagina elettrico, ma si delinea nella sua nuda perfezione già nella prima seduta il 16 settembre quando prova da solo alla chitarra acustica. Il produttore Phil Ramone, ascoltando la transizione dall’una all’altra della sequenza di canzoni, avrà l’impressione d’un medley.
Il volume quattordici della Bootleg Series, More Blood, More Tracks, nell’edizione con sei dischi documenta fedelmente l’andamento di quei quattro giorni di registrazioni tra il 16 e il 19 settembre. Dylan, a un certo punto, chiama a suonare il polistrumentista e virtuoso del banjo Eric Weissberg con il suo quintetto Deliverance. Non va. Trattiene allora con sé il solo bassista dei Deliverance, Tony Brown, avvalendosi di qualche coloritura alle tastiere di Paul Griffin, che aveva suonato nei capolavori Highway 61 Revisited, 1965, e Blonde on Blonde, ’66, nonché di Buddy Cage, della band country rock New Riders of the Purple Sage, alla pedal steel guitar. Funziona.
Rinnegare un capolavoro non basta a rovinarlo
Alla fine Blood on the Tracks contiene dieci canzoni. Nell’ordine: Tangled Up in Blue. Simple Twist of Fate. You’re a Big Girl Now. Idiot Wind. You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go. Meet Me in the Morning. Lily, Rosemary and the Jack of Hearts. If You See Her, Say Hello. Shelter from the Storm. Buckets of Rain. Il 25 settembre Dylan esce dagli studi di registrazione con un test pressing del nuovo album. La Columbia organizza la pubblicazione prima di Natale.
Quel test pressing è stato pubblicato in edizione limitata nel 2019 per il Record Store Day, sebbene lo si conoscesse già da diversi bootleg: è il vero, grandissimo Blood On the Tracks. Ma non è quello pubblicato quarantaquattro anni prima. La ragione è che il cantautore lo fece ascoltare al fratello David Zimmerman e al critico Robert Christgau. Sia l’uno che l’altro lo dissuasero.
Sembra il Dylan folk prima della svolta elettrica, disse Christgau. Non sarà trasmesso in radio e non venderà perché il suono è troppo austero, disse David che faceva il produttore. Alla fine, su sollecitazione del fratello che organizza le registrazioni in uno studio di Minneapolis, il Sound 80, con musicisti locali, Dylan registra nuovamente cinque canzoni: Tangled Up in Blue. You’re a Big Girl Now. Idiot Wind. Lily, Rosemary and the Jack of Hearts. If You See Her, Say Hello. Sono con lui Chris Weber e Kevin Odegard alle chitarre, Billy Peterson al basso, Greg Inhofer alle tastiere e Billy Berg alla batteria. Le nuove sessions si svolgono il 29 e il 30 dicembre. Il disco sarà pubblicato venti giorni più tardi utilizzando le copertine già fatte stampare dalla Columbia dove non sono menzionati i musicisti di Minneapolis.
Il risultato? Dylan è contento: il disco è più veloce, meno malinconico. Non è ancora tempo per la trasmissione Unplugged di MTV dove le meravigliose sfumature delle nude versioni di New York avrebbero ricevuto il giusto riscontro. In realtà, come ha opportunamente rilevato Riccardo Bertoncelli su Musica Jazz, quattro canzoni su cinque continuano a funzionare ma Lily, Rosemary and the Jack of Hearts diventa “un pianto greco”. Scrive ancora Bertoncelli: “Così bella nella originaria nudità acustica, si trasforma in una marcetta country folk scandita dalla sciocca batteria di Billy Berg e finisce per guastare uno dei testi più belli e complessi di tutto il repertorio”. Per quanto il lavoro dei musicisti di Minneapolis sia stato nel complesso valido, tutte le nuove versioni non valgono le vecchie.
Le negazioni di Bob, la conferma di Jakob
“Era una stagione così ricca e felice, e Blood On the Tracks un esperimento di auto-analisi tanto coraggioso, che ammiro e rispetto la storia così com’è andata, Fante di Cuori included” osserva infine Bertoncelli, anch’egli sostenitore del maggior valore delle registrazioni di New York. Sua Bobbità, superati non senza tribolazioni gli anni della messa a nudo delle sue pene, sarebbe tornato a proteggere la sua vita privata con un riserbo ostinato. Avrebbe spergiurato che Blood On the Tracks non riguardava la sua vicenda matrimoniale arrivando a sostenere, nelle Chronicles, che i testi che nell’estate del 1974 andava trascrivendo su tre taccuini rossi seguendo il metodo di Raeben, cioè rivedendoli in continuazione in una elaborazione creativa che avrebbe caratterizzato per sempre il suo percorso artistico, erano ispirati ai racconti di Anton Cechov: altro che Sara!
Nel 1985, in un’intervista a Bill Flanagan, Dylan rilevò. “Molte persone pensavano che quell’album mi riguardasse. Non mi riguardava… Non avevo intenzione di fare un album su una relazione matrimoniale”. Dieci anni prima, in un’intervista radiofonica a Mary Travers, aveva osservato: «Un sacco di persone mi dicono che amano quell’album. È difficile per me capirne il perché. Voglio dire, alle persone piace quel tipo di dolore?». Nel 1978, messo alle strette sulla natura confessionale del disco, sostenne: “Potrebbe esserci qualche piccola parte di me che sta confessando qualcosa che ho sperimentato e lo so, ma non significa assolutamente che tutto quello che sto confessando riguardi me”.
Certamente vale il principio, sostenuto dai biografi Robert Shelton e Clinton Heylin, che Blood On the Tracks vada considerato su diversi livelli: musicale, poetico, spirituale, di autoanalisi personale. Per la stessa ragione, chi conosce un po’ la storia di Bob Dylan intuisce che i personaggi delle canzoni possano riguardare, trasfigurati, varie fasi della giovinezza dell’autore. Tutto questo è però coerente anche con l’idea che Dylan sia stato spinto a fare un disco così sincero, a tratti spietato, dalle sue vicissitudini matrimoniali. Jakob Dylan è stato chiaro: “Quando ascolto Subterranean Homesick Blues, mi sto divertendo proprio come te. Ma quando ascolto Blood On The Tracks, parla dei miei genitori”.