Mike Ratledge

Mike Ratledge: un pioniere dei suoni al confine tra le musiche

E Wyatt restò solo

Mike Ratledge se n’è andato il 5 febbraio a ottantun anni e nove mesi dopo una breve malattia, come ha fatto sapere l’amico John Etheridge, chitarrista degli attuali Soft Machine. L’ha fatto otto giorni dopo gli ottant’anni di Robert Wyatt che rimane così l’unico in vita tra i fondatori dell’antico gruppo. Il “batterista bipede”, così si è definito per come era prima dell’incidente che dal 1973 lo costringe su una sedia a rotelle, resta anche il solo del quartetto classico (Ratledge tastiere, Hugh Hopper basso, Wyatt batteria, Elton Dean fiati) che nel ‘70 con Third, appunto terzo di nove dischi in altrettanti anni dal 1968 al 1976, realizza un’opera essenziale nella musica.

A quel tempo Michael Roland Ratledge, la figura dinoccolata ed elegante in giacche trasandate, il caratteristico taglio con la frangia sui capelli lunghi a caschetto a cui avrebbe associato un paio di baffi, era un personaggio nella Londra underground. In locali improbabili i Soft Machine, tra avanguardia, psichedelia, rock e jazz, si muovevano con i coevi King Crimson e Pink Floyd definendo ciascuno un universo sonoro, ma con tratti comuni d’imprevedibile genialità.

All’inseguimento di Jimi Hendrix

Per le cronache d’antan Mike fu per breve tempo il marito (perché lei voleva restare in Inghilterra) di Marsha Hunt, la cantante e attrice afroamericana celebrata in due diverse canzoni chiamate Brown Sugar da John Mayall (1933-2024) e, sfacciatamente, da Mick Jagger che da lei ebbe Karis, la primogenita di otto figli da cinque madri. Per le sperimentazioni in musica, Ratledge era invece quel tastierista colto, con significativi studi classici, capace di trasferire l’urlo psichedelico di Jimi Hendrix in un modesto organo Lowrey che, come un’automobile qualunque dal motore abilmente truccato, era stato reso capace d’insospettabili meraviglie.

Nel 1968 i Soft Machine avevano attraversato per sette mesi gli Stati Uniti in due tour estenuanti con la Jimi Hendrix Experience, di cui erano il gruppo spalla. Li gestiva la società di Chas Chandler (1938-1996), manager del fenomenale chitarrista di Seattle. Jimi (1942-1970), insieme a Frank Zappa (1940-1993) e alle sue Mothers of Invention, aveva attirato l’interesse del riservato tastierista del Kent a cui altrimenti non piacevano il pop e il rock americano, troppo limitati per lui sotto il profilo tecnico e creativo. Le sonorità lancinanti di Hendrix, ottenute da marchingegni distorsivi che talvolta egli stesso si costruiva, colpiscono la fantasia di Ratledge. I Soft Machine non hanno un chitarrista carismatico. Anzi, perduto l’australiano Daevid Allen (1938-2015) dopo l’estate del ’67 perché le autorità britanniche non gli rinnovano il visto (resterà a Parigi fondando i Gong), licenziato Andy Summers (si, quello dei Police) per dissapori con Kevin Ayers (1944-2013) nel breve periodo tra i due tour americani, un chitarrista non lo avranno proprio fino alla metà degli anni Settanta. Nelle sapienti mani di Mike, devoto a Cecil Taylor (1929-2018), il Lowrey diventa lo strumento che rincorre il fantastico pandemonio hendrixiano.

Un sintetizzatore ante litteram

L’apparecchio che consente al misurato Ratledge di evocare l’indiavolato chitarrista è una unità fuzz box che, nella circostanza, viene per la prima volta associata a un organo. La fuzz box è un effetto che contiene un amplificatore e un circuito che distorce il suono che riceve. L’onda sonora che ne scaturisce da sinusoidale diventa quadrata. Il risultato è un timbro più sintetico e compatto. Hugh Hopper (1945-2009), che avrebbe di lì a poco applicato la fuzz box al suo basso come già aveva fatto Paul McCartney nel ‘65 per la canzone Think for Yourself nell’album Rubber Soul dei Beatles, intervistato da Michele Coralli per Strumenti Musicali del gennaio 2003 avrebbe così spiegato: “Una sequenza di note senza compromessi, scarti improvvisi di tessitura e struttura, indicazioni di tempo complesse, caratterizzavano uno stile che, fino a quel momento, non si era mai sentito prima”.

In realtà, senza la capacità esecutiva di Mike, la fuzz box da sola non sarebbe stata sufficiente a far arrivare il Lowrey nella stratosfera. Il suono viene continuamente manipolato dal tastierista agendo sui tasti timbrici, ideando un caratteristico stile dinamico che sopprime le pause tra una nota e l’altra. Il legato che genera, insieme al dosaggio della saturazione sprigionata dalla fuzz box, portano a quelle caratteristiche fughe acidule che diverranno il marchio di fabbrica dei Soft Machine e che si distinguono, piacevolmente petulanti, nelle lunghe composizioni di Third.

Il miraggio della musica totale

In quel grande disco diviene evidente l’inconciliabilità con Wyatt di Ratledge e Hopper. Problemi caratteriali, ma anche di scelte e attitudini musicali. Emanuele Pavia, in un esaustivo saggio su Livore.it, ha spiegato filologicamente come i Soft Machine che si riformano in trio, dopo un periodo di sbandamento seguito ai tour negli Stati Uniti e alla pubblicazione del primo omonimo album, siano più il gruppo del tastierista e del bassista che dell’eccentrico batterista cantante. I due, accomunati dall’uso della fuzz box, guardano al nuovo funky jazz fusion che Miles Davis (1926-1991), introducendo strumenti elettrici nel suo jazz modale, sta incubando in dischi come Miles in the Sky, 1968, e Filles de Kilimanjaro, ‘69. Fino alla definitiva svolta jazz rock, grazie anche agli ingegnosi montaggi del produttore Teo Macero (1925-2008), nei capolavori In a Silent Way, ‘69, e Bitches Brew, 1970.

Wyatt, con l’abbandono di Daevid Allen e di Kevin Ayers (rimasto a Ibiza dopo il secondo tour americano: il gruppo gli dedicherà la sardonica As Long As He Lies Perfectly Still), è alla ricerca d’una sua direzione artistica e musicale tra dadaismo, psichedelia e sperimentalismi. Sarà lui il protagonista del secondo album, Volume Two, 1969, indubbiamente il lavoro dei Soft Machine più rivolto al rock progressivo. Poi, però, non vedrà di buon occhio l’avvicinamento al jazz di Ratledge e di Hopper. La conseguenza immediata è l’allargamento del gruppo, per breve tempo, a sette elementi cooptando dei musicisti del giro di Keith Tippett (1947-2020).

Resterà Elton Dean (1945-2006), per cui i Soft Machine per due anni si stabilizzeranno nel quartetto classico. Ma il contributo di personalità come i fiatisti Jimmy Hastings (1938-2024), fratello di Pye dei Caravan, Lyn Dobson, Nick Evans, più il violinista Rab Spall, arricchirà le composizioni di Third di quei suoni che, attraverso le esibizioni dal vivo tra il ‘69 e il 1970, stavano già trasferendo l’identità musicale dei Soft Machine dal rock al jazz d’avanguardia. L’orizzonte di Mike sono dischi tanto innovativi quanto leggendari di quel tempo in cui il nuovo jazz e gli sperimentalismi del rock si relazionavano al minimalismo e alle nuove musiche del mondo. A Rainbow in Curved Air del compositore Terry Riley ispirato alla musica classica indiana, ad esempio. Non manca uno sguardo ai dischi anticonformisti di Zappa con e senza le Mothers: Uncle Meat e Hot Rats, entrambi del 1969.

In Third le due eccellenti composizioni di Ratledge (Slightly All the Time e Out Bloody Rageous), più quella di Hopper (Facelift), rappresentano il punto di non ritorno d’un percorso musicale che neppure l’eccezionale Moon in June di Wyatt, forse lo zenit dell’arte dei Soft Machine, riuscirà a rimodulare. Qualcuno, ispirandosi evidentemente al rapporto tra l’arte e la società teorizzato da Giorgio Gaslini nel ‘64 affinché la musica superasse i confini di genere e di cultura, parlerà di musica totale. In questo caso per la capacità di fondere, in una struttura indiscutibilmente jazz, il rumorismo rock, lo straniamento della psichedelia, la ripetitività ammaliante del minimalismo, unitamente alle inquietudini e alle aspirazioni degli autori.

Mike suona in Tubular Bells

La foto interna alla copertina apribile di Third, di Jürgen D. Ensthaler, dice molte cose. In una disordinata camera di studenti Elton Dean siede per terra in un angolo con le braccia conserte, cupo come se scontasse il noviziato. Hugh Hopper e Mike Ratledge, sornioni, fissano l’obiettivo, il secondo con i caratteristici occhialini scuri, slanciati su un letto con una coperta dalle tipiche geometrie psichedeliche. Robert Wyatt dà loro le spalle, mesto, seduto su uno sgabello per conto suo, apparentemente stanco ed escluso dai giochi.

Soft Machine - interno copertina Third

Nella biografia autorizzata Different Every Time di Marcus O’Dair sarà categorico, Wyatt, nello stroncare la svolta jazz di Ratledge e di Hopper che metterà in un angolo i suoi sperimentalismi rock: “Per me, il jazz fusion era il peggiore dei due mondi. Erano ritmi rock, suonati in un modo piuttosto sciocco, con sopra assoli molto complicati”. Un giudizio così netto, però, arriva solo nel 2014, cioè ben quarant’anni dopo la trasmutazione dei Soft Machine in un gruppo fusion con Jenkins al comando e Ratledge, disincantato, che proseguirà per due album, Seven, 1974, e Bundles, ’75, per poi andarsene. Prima di allora i Soft Machine realizzeranno almeno tre dischi notevoli il cui principale difetto sarà la scarsa fantasia nei titoli.

Il primo è Fourth, 1971, l’ultimo con Wyatt retrocesso a batterista da studio (nel suo primo fiammeggiante album solista di jazz radicale, The End of an Ear, coevo a Third, commenterà l’imposizione di Ratledge e di Hopper a non cantare con una didascalia sarcastica sotto la sua foto: cantante pop disoccupato). L’album si apre con Teeth, magistrale e complicata composizione di Mike dove dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, tutta la sua perizia. Il successivo disco è, l’anno dopo, Fifth. In una facciata ci suona l’energico batterista australiano Phil Howard, ingaggiato per l’insistenza di Elton Dean che punta a forzare in direzione dell’improvvisazione free jazz la più formale tendenza avant jazz di Ratledge e Hopper. Il tentativo fallirà. Dopo aver suonato dal vivo nel tour autunnale, Howard viene mandato via per fare posto al più preciso John Marshall, ritenuto più congenial alle composizioni strutturate di Ratledge: Dean, alla prima occasione e per solidarietà verso l’amico, se ne va anche lui.

Nel 1973 un filmato della BBC riprende l’esecuzione in studio della prima parte di Tubular Bells del ventenne pluristrumentista Mike Oldfield, uno dei dischi dell’anno. Venderà tredici milioni di copie e farà la fortuna della neonata Virgin Records di Richard Branson. Insieme a grandi musicisti britannici dell’epoca come, oltre all’autore, Fred Frith, John Greaves, Tim Hodgkinson degli Henry Cow, Pierre Moerlen (1952-2005) e Steve Hillage dei Gong, Mick Taylor dei Rolling Stones. C’è anche Karl Jenkins, il fiatista venuto dai Nucleus che stava trasformando i Soft Machine in un gruppo fusion. Mike Ratledge, nell’occasione, mostra la straordinaria versatilità e la fluidità esecutiva di cui era capace.

 

La deriva fusion

A posteriori lui e Hopper si lamenteranno del continuo avvicendarsi di musicisti abituati a improvvisare invece che a eseguire partiture scritte, situazione che finisce per snaturare la loro idea di musica. Ciò avviene dopo che i Soft Machine, celebrati da Ornette Coleman (1930-2015) nel tour americano del ‘71, ricevono ormai ampia considerazione nel mondo del jazz britannico e no. La transizione alla fusion comincia nell’ancora notevole doppio album Six, ’73, dove Jenkins divide con Ratledge l’attività di composizione, soluzione inizialmente gradita al tasterista. La sua estetica accademica e contemplativa ammorbidirà, talvolta banalmente, le sonorità fuzz, la ricerca, gli sperimentalismi. È la fine della musica totale.

Marshall è il primo arrivato dai Nucleus durante le sessions di Fifth. Seguiranno appunto Jenkins, poi il bassista e contrabbassista Roy Babbington in Seven, sempre nel ’73, sostituendo Hopper che intende dedicarsi alla carriera solista. Infine arriverà il formidabile chitarrista Allan Holdsworth (1946-2017) in Bundles, ’75. In quel disco Holdsworth è il protagonista fin dal riff iniziale di Hazard’s Profile, composizione in cinque parti di Jenkins che rielabora Song for Bearded Lady dal secondo album dei Nucleus, We’ll Talk About It Later, ’70, dove le parti di chitarra erano di Chris Spedding. A quel punto i Soft Machine sono diventati quattro ex membri dei Nucleus (formazione dalla quale transiteranno ben quarantasette musicisti dal 1969 al 1985) più Ratledge. La transizione alla fusion è definitivamente conclusa.

La seconda vita

Mike Ratledge lascerà il gruppo che aveva fondato nel ‘76 durante la registrazione dell’album Softs, dove compare in due composizioni. I Soft Machine realizzeranno, due anni dopo, un non indispensabile disco dal vivo con inediti, Alive and Well Recorded in Paris, e nel 1981 l’ultima prova, Land of the Cockayne, che di fatto è un disco solista di Jenkins. Mike apre uno studio di registrazione, ma si dedicherà principalmente a musiche per film fino al 1983. Poi farà musiche per il teatro e la pubblicità, partecipando occasionalmente a jam sessions con diversi musicisti. Lavorerà ancora con Karl Jenkins con il quale suonerà nel 1995 in quella che è la sua partecipazione più significativa in vent’anni: il primo album della serie Adiemus, cioè Adiemus: Songs of a Sanctuary. Sempre con Jenkins farà altri due dischi, Movement e Some Shufflin’, con musiche per la televisione e per film. In precedenza si dedica alla realizzazione d’un cd-rom sull’arte veneziana e ad alcune trasmissioni televisive.

Solo il carattere riservato e il ritiro dalle scene a trent’anni ha probabilmente impedito a Ratledge d’essere considerato in vita, dal grande pubblico, per quanto valeva come musicista e artista. Sono però in tanti gli appassionati di musica che si sono ricordati di lui quando si è diffusa la notizia della sua morte. John Etheridge, che lavorò in Softs avendo sostituito Holdsworth, lo incontrava ogni settimana. «Mike era la spina dorsale dei Soft Machine nei primi anni e un uomo con una mente assolutamente incisiva, un meraviglioso compositore e tastierista. Un vero uomo rinascimentale, così talentuoso, colto, affascinante, e un compagno meraviglioso».

Theo Travis, l’artefice della ricostituzione dei Soft Machine di cui Etheridge è chitarrista, nel primo album della rinascita, Hidden Details del 2018, ha voluto due composizioni di Mike insieme a quelle nuove: The Man Who Waved at Trains e Out Bloody Rageous. I dischi d’archivio con concerti, soprattutto tra il 1970 e il ’72, restano un importante tesoro ancora in parte da scoprire per i tanti ricercatori presenti e futuri di quella musica nella terra di nessuno al confine tra il rock, il jazz, l’avanguardia, la psichedelia, lo sperimentalismo, di cui Mike Ratledge è stato pioniere.

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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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