Peter Green

Peter Green chitarrista “soprannaturale”

Peter Green

 

Nel 1966 il ventenne Peter Allen Greenbaum, in arte Peter Green, sostituisce Eric Clapton nei Bluesbreakers di John Mayall. Un compito difficile considerando che Clapton veniva chiamato “Dio” dai suoi fan. Eppure Green dimostra subito di saperci fare. Rispetto a Clapton ha uno stile fluido, suadente, ispirato a un maestro blues quale B.B.King, ma anche alle note allungate di Hank Marvin degli Shadows. Per la’bum A Hard Road scrive uno strumentale dai toni arcani che è fuori sincrono con il fervore sonico di Mayall, ma anche con tutta la musica di quel 1966 pop-psych: The Supernatural. Ecco, se Clapton è Dio, Green è soprannaturale. Ed è molto più affascinante.

Peter Green nei Fleetwood Mac

Già allora c’è qualcosa di strano nella musica di Peter Green. Certo, è indiscutibilmente un bravissimo chitarrista blues e lo stesso B.B. King dichiara che quel ragazzo gli fa venire “i sudori freddi”. Quando Green fonda i Fleetwood Mac il successo di classifica è quasi immediato, grazie anche alle composizioni da lui firmate. Ma non si tratta di pezzi che possano definirsi davvero blues, oppure sì se al termine si dà un senso più globale simile alla saudade brasiliana o allo spleen baudelairiano. Albatross è un altro strumentale quasi impalpabile eppure memorabile, mentre canzoni come Oh, Well, Man Of The World, la straziante Closing My Eyes raccontano di un giovane uomo a cui la celebrità crea più problemi che gioie. E poi c’è, ovviamente, la sinuosa, oscura Black Magic Woman che sarà resa celebre da Santana.

Gli anni del grande buio

Forse c’è in Green una naturale inclinazione per il lato oscuro, forse l’Lsd comincia a occupare troppo spazio nella sua vita. E cominciano anche i comportamenti strani. L’aspetto diventa quello di un predicatore allucinato, l’intenzione dichiarata è quella di dare in beneficienza  i soldi guadagnati con la musica. Il singolo The Green Manalishi (With The Two Prong Head) è quasi agghiacciante e pervaso da visioni allucinate. Siamo nel maggio 1970 e, come il concerto degli Stones ad Altamont pochi mesi prima, può essere considerato uno dei simboli della definitiva perdita d’innocenza del rock.

 

Poco dopo Green lascia i Fleetwood Mac e incide  il suo primo, drammatico album solista, emblematico sin dal titolo: The End Of The Game. Sono sei pezzi strumentali in chiave jam-session che viaggiano con pochissimo bagaglio strutturale, ma da cui emergono passaggi lancinanti. Qualcuno trova affinità con Jimi Hendrix, anche se il paragone più plausibile è con un altro disco,  diverso nei suoni eppure ugualmente emblematico di un deragliamento dei sensi: Lorca di Tim Buckley. In effetti il gioco della grande musica per Peter Green finisce qui.

Seguono decenni di ricoveri in istituti mentali con terapie elettroconvulsive che, probabilmente, peggiorarono le cose. Ci sono lavori occasionali (fra cui il becchino, si dice) e un ritorno alla musica con album solisti di livello al massimo discreto. Peter fa qualche apparizione nei dischi dei Fleetwood Mac, nel frattempo diventati star multiplatino, e fra il 1997 e il 2004 si fa vedere ogni tanto dal vivo con lo Splinter Group. L’unico momento di effimera gloria è datato 1998 quando, insieme a Santana, suona Black Magic Woman a New York alla Rock & Roll Hall Of Fame.

Peter Green R.I.P.

Il Peter Green degli anni recenti è un uomo a suo modo pacificato che ama la pesca e suona ogni tanto insieme ad amici come Bernie Marsden (ex UFO e Whitesnake). Pare aver scacciato gli antichi demoni, ma teme la luce dei riflettori. Il 25 febbraio 2020 Mick Fleetwood organizza al London Palladium un concerto in suo onore con la presenza di chitarristi celeberrimi (e che a lui qualcosa devono) come David Gilmour, Billy Gibbons e Jonny Lang. C’è anche il vecchio maestro ottuagenario John Mayall. L’unico che manca è proprio Peter Green. Ed è commovente che un uomo dalla vita così travagliata sia morto serenamente, nel sonno, a 73 anni. La seconda, e più bella, “fine del gioco”.

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Nello scorso secolo e in parte di questo ha collaborato con Rockerilla, Musica!, XL e Mucchio Selvaggio. Ha tradotto per Giunti i testi di Nick Cave, Nick Drake, Tom Waits, U2 e altri. E' stato autore di monografie dedicate a Oasis, PJ Harvey e Cranberries e del volume "Folk inglese e musica celtica". In epoca più recente ha curato con John Vignola la riedizione in cd degli album di Rino Gaetano e ha scritto saggi su calcio e musica rock. E' presidente della giuria del Premio Piero Ciampi. Il resto se lo è dimenticato.

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