Sly Stone

Alla luce di due perdite recenti nel mondo della musica, quella di Brian Wilson e quella di Sly Stone, proponiamo una riflessione sul perché la musica di quest’ultimo abbia faticato (e fatichi ancora?) a entrare fra gli ascolti del pubblico europeo.

Sylvester Stewart aka  Sly Stone (15 marzo 1943 – 9 giugno 2025).

Inutile parlare della storia di Sly Stone e della sua band; sia la sua autobiografia pubblicata da Jimenez che il documentario dedicatogli da Questlove, per non citare i numerosi articoli usciti in occasione della sua morte, assolvono egregiamente al compito. La morte di Sly mi ha fatto venire in mente che, pur seguendo la scena rock e dintorni sin dalla fine degli anni Sessanta, la sua musica ha tardato molto ad appassionarmi con una conoscenza  limitata alla partecipazione a Woodstock, bella e trascinante. Eppure non avrei acquistato un suo disco, al contrario di quanto feci con molti altri protagonisti di quell’evento e di quel film. Vorrei perciò tentare di parlarne in un’ottica un po’ diversa, cercare di vedere come la musica di Sly, e direi in generale il funk, sia stato accolto nel nostro paese al suo sorgere.

Stand! e There’s a Riot Goin’ On: la rivoluzione di Sly Stone non tocca l’Europa

Perché se è vero che album come Stand! e There’s a Riot Goin’ On, pubblicati fra il 1969 e il ‘70, ebbero grande successo in patria, qui da noi solo in pochi se ne accorsero. Per la mia generazione, nata negli anni ‘50 e andata a costituire il grande pubblico che scopriva il rock, comprava dischi e leggeva riviste musicali (in primis Ciao 2001), sul finire degli anni Sessanta quella musica basata essenzialmente sul groove ritmico appariva ancora in qualche modo aliena, magari immediatamente divertente, ma da lì a comprarne i dischi ce ne correva.

Probabilmente la forma mentis con cui era cresciuto l’appassionato italiano si è orientata verso forme ritenute più adulte, più culturalmente raffinate, come era considerato il prog, senza comprendere la vulcanica fusione di soul, r&b, rock, psichedelia rappresentata dalla musica di una band numerosa in cui militavano bianchi e neri, uomini e donne. Una totale rottura di schemi e consuetudini.

Un ricordo personale

Aggiungerei un piccolo ricordo personale: nel 1971, attirato dal nome di Ginger Baker, mi trovai ad assistere a un concerto di Fela Kuti. Ebbene devo confessare che ne restai sconcertato, in poche parole non ci capii nulla, eppure già allora i miei ascolti includevano musiche non facili come  Third Ear Band o Pearls Before Swine, ma quei ritmi afro e funk mi lasciavano freddino. Ci volle più di un decennio perché cominciassi ad apprezzarl, ad ascoltarli e ad amarli. Potrei dire la stessa cosa per Sly o per i Funkadelic e ci vorrà l’esplosione del reggae di Bob Marley, la diffusione della world music e di etichette come la Real World, ma soprattutto della cultura hip hop per farmi rileggere con occhi e mente diversi quella straordinaria rivoluzione musicale che, come diceva lo stesso Sly Stone: “Non posso dire che sia rhythm’n’blues, non posso dire che sia rock, non posso dire che sia pop, perché nemmeno io so cosa sia”.

Sly Stone e la black music

Certamente fu una fusione sonora che ebbe un’enorme influenza sulla musica a venire, da Miles Davis, a Prince, all’hip-hop, ai Red Hot Chili Peppers e lo  testimoniano le innumerevoli cover realizzate da artisti  dalle più diverse provenienze. Adesso dopo una vita costantemente sul filo del rasoio ci rimane la sua musica ribelle, eccessiva, coloratissima, ribollente come l’epoca in cui nacque e che ha provato a realizzare il suo desiderio: “I Want To Take You Higher” che suonava come il sessantottino “Vogliamo tutto”.

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Nato nel 54 a Palermo, dal 73 vive a Pisa. Ha scritto di musica e libri per la rivista online Distorsioni, dedicandosi particolarmente alla world music, dopo aver lavorato nel cinema d’essai all’Atelier di Firenze adesso insegna lettere nella scuola media.

Di Ignazio Gulotta

Nato nel 54 a Palermo, dal 73 vive a Pisa. Ha scritto di musica e libri per la rivista online Distorsioni, dedicandosi particolarmente alla world music, dopo aver lavorato nel cinema d’essai all’Atelier di Firenze adesso insegna lettere nella scuola media.

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