David Bowie Diamond Dogs

Un romanzo e un disco: nel 2024 celebriamo i 50 anni compiuti da Diamond Dogs di David Bowie.

A rileggerlo oggi 1984 di George Orwell non riesce a nascondere le molte grinze che ha. Rughe che già mostrava al tempo della sua pubblicazione nel 1949 e che il tempo ha contribuito tutt’altro che a levigare. Ad ascoltarlo oggi, Diamond Dogs di David Bowie, resta invece quell’oscuro affascinante diamante che sempre è stato. Destini diversi di due opere profondamente connesse.

C’è già qui un però. Connesse come? E dove?

Quando si parla di 1984, ché il suo destino alla fine è che se ne parli molto e che non lo si legga poi così tanto, è consuetudine sospirare davanti alla supposta capacità dello scrittore inglese di predire aspetti del nostro tempo e del nostro mondo. Gli si riconosce, cioè, in via imperitura, la capacità di trarre conclusioni essenziali ed eterne sui destini umani ed “orwelliano” è diventato nel tempo un sinonimo di senso comune, che vale “cupo”, “sinistro”, “apocalittico”. Perché? Dove sta il cuore di 1984, giacché deve pur esserci?

La realtà distopica di 1984

Sta davvero nella capacità profetica di Orwell? Ma se lo scrittore inglese, nella sua fervida proiezione distopica, di previsioni non ne ha azzeccata mai neanche una. Il mondo, il nostro mondo, e già quello dell’evocato anno 1984, non si sono aggregati neanche per scherzo secondo le grandi e fantasiose partiture geopolitiche orwelliane, ma al contrario sono esplosi atomizzandosi. Né lo stalinismo nazificato è stato il modello politico dominante del dopoguerra: al contrario, è crollato quattro anni dopo la pubblicazione del libro con la morte del Cobe, e con esso il totalitarismo sovietico, che avrebbe avviato da allora e fino allo schianto del patto di Varsavia, quarant’anni dopo la pubblicazione del libro, una tortuosa transizione post totalitaria.

1984

Il meticoloso metodo di controllo delle menti che Orwell intende connaturato al sistema del comunismo euroasiatico si è rivelato da subito, e già da allora, e con ben altra pervasiva raffinatezza, sfera di cristallo degli abili persuasori a libro paga del neo capitalismo. Le lingue e i linguaggi non sono precipitati al grado 0 della significanza, i messaggi si sono fatti plurimi e complessi e la lingua e le lingue, in assoluta controtendenza rispetto a quanto teorizzato nel dettaglio nel pedante capitolo dedicato alla «Newspeak», si sono frantumate in una infinità di gerghi. Contrariamente al mondo immaginato dall’umanista Orwell già stava vincendo al tempo ed ha prevalso poi la forza della tecnica e delle tecniche. Orwell profetizzava un futuro tetro e semplice, ne è uscito uno sconvolto e complesso (come sempre).

Ma più di tutto Orwell conosceva, anche per drammatica diretta esperienza, e non sapeva immaginare altro che un universo dominato e pervaso dall’ombra del Partito e della Politica. Politica che si è invece liquefatta a beneficio di un incontrastato dominio economico e finanziario che Orwell è lontanissimo dal sospettare come condizione permanente del futuro.

David Bowie e la genesi di un capolavoro: Diamond Dogs

E allora, ancora una volta, dove risiede la forza magnetica di questo libro, una forza che continua, in fin dei conti, a farcelo amare, nonostante i molti ed evidenti difetti, a partire dalla piatta e rozza elementarità dello stile? E soprattutto, si chiederanno i nostri più giovani lettori, ammesso esistano, cosa c’entra mai David Bowie?

In una scena assai famosa del libro Winston e Julia, amanti che covano la loro fragile e velleitaria ribellione, si ripetono a vicenda una celebre espressione “We are the dead”, noi siamo i morti. Ecco, secondo noi, qui risiede e non altrove la forza perpetua di 1984: nella narrazione dolorosa e disperata di una quotidiana esperienza di morte in vita, tipica di ogni dittatura, di una vita che è soltanto destino e condanna, nella negazione di ogni diritto ad un futuro in cui orizzonte collettivo e individuale non siano fusi e confusi, nella depressione programmatica di ogni slancio vitale, che trova il proprio corrispettivo olfattivo e gustativo nella puzza di cavoli che si respira negli androni di condomini immensi ed anonimi e nel sapore del gin a poco prezzo che circola, vodka anglosassone, ovunque nel libro.

We Are The Dead è per l’appunto il momento più vertiginoso di quanto resta, dentro Diamond Dogs, dell’originario progetto di realizzare un musical ispirato a 1984, idea che, già in stato avanzato, si scontrò nella ferma opposizione di Sonia Orwell: la vedova negò nel 1973 l’uso dei diritti a Bowie, David la prese maluccio e la sensazione è che non l’abbia mai del tutto digerita.

Tanto fa. Sarà da questo fallimento che germinerà la scommessa, su cui si fonda e si regge l’equilibro impossibile di un disco straordinario, di tenere insieme la distopia orwelliana a quella partorita da Bowie e figlia della frequentazione dell’opera di Burroughs, la cui tecnica del cut-up è pesantemente presente in entrambe le sezioni apocalittiche del disco e ne costituisce, si direbbe, la specifica e accomunante neolingua.

Hunger City

È una Manhattan decadente, post atomica e sordida, quella che si affaccia nel disco con il nome di Hunger City. Dirà Bowie nel 1999 che questo progetto «Implicava ancora l’idea del collasso di una città» vampirizzata da «una gioventù ostile che dopo la disgregazione del nucleo familiare viveva in bande sui tetti e aveva totalmente la città in pugno». Dodo, in ultimo espunta dal disco, b-side di 1984 ed eseguita niente a fatto a caso in medley nel 1973, segna il punto di congiunzione ideale fra i due mondi: i figli che denunciano padri e madri alle autorità psicopoliziesche e che sventrano le proprie famiglie in 1984, sono gli stessi anarchici e tribali cannibali che nella degenerazione post atomica di Hunger City diventano padroni di un mondo sconvolto, dominato da una perenne infanzia selvaggia, così come perennemente infante è l’uomo nell’ingranaggio totalitario.

Diamond Dogs

1974, David Bowie e Diamond Dogs, dieci anni prima dell’apocalisse di Orwell

L’album esce nel 1974, 10 anni prima dell’apocalisse vaticinata da Orwell, cinquant’anni prima di questo 2024.We Are The Dead, nel suo vortice d’ansia, nel senso claustrofobico di condanna, nella sua impossibilità di fuga e nella sua spirale di morbidezza sonora, rappresenta, a nostro modo di vedere, il fulcro dell’album che, oltre a canzoni che nulla c’entrano con apocalissi e totalitarismi ma si strascicano dall’abortito spettacolo musicale su Ziggy (Rebel Rebel e When You Rock ‘n’ Roll With Me) si spinge ben oltre la conciliazione di due universi distopici, ricercandone l’intima continuià e trovandola in un orrore urbano in cui i figli fagocitano i padri e le madri.

In questa chiave, la duplice overture affidata a Future Legend e 1984 salda con forza gli scenari della doppia distopia così come lo sciogliersi del canto di invocazione al Big Brother nella danza macabra post apocalittica di Chant Of The Ever Circling Skeletals Family  fa calare, a parti invertite, il sipario su un duplice finale. Ma come al cuore della propria personale lettura orwelliana Bowie incardina il vortice sonoro di We Are The Dead (che per un certo periodo avrebbe, non a caso, contesto la palma di titolo del disco a 1984), nel cuore borroughsiano di Hunger City conficca il trittico Sweet Thing /Candidate / Sweet Thing.  Oltre a rappresentare uno dei vertici creativi di Bowie, Sweet Thing /Candidate / Sweet Thing battezza il suo nuovo stile vocale, poggiando non più sullo stridere del falsetto, ma sulle corde di un basso profondo che avrebbe esercitato influenza non calcolabile su mille e mille figli e figliastri a venire.

Se We Are The Dead raffigura la morte in vita secondo Orwell e secondo Bowie, in Sweet Thing /Candidate / Sweet Thing quella stessa morte dell’anima la sussurra una star sprofondata nei meccanismi disumani del successo e invischiata in un nuovo, eterno gin a basso costo, fatto di alcol e droghe, sperso nel buio assoluto dell’anima. E i versi conclusivi di Candidate non sono che un lugubre rintocco, un richiamo per i morti ancora in vita: «I guess We could cruise down / one more time / With You by my side, it should be fine / We’ll buy some drugs /and watch a band / Then jump in the river / holding hands».

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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