Alberto Banti

“Secondo George Martin, il famoso produttore dei Beatles, il merito fondamentale di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band fu quello di riuscire a raccontare perfettamente la propria epoca, cogliendo l’essenza degli anni Sessanta e di gran parte di ciò che caratterizzò quel periodo: la psichedelia, le mode, la passione per le filosofie orientali, la pace e l’amore, il movimento pacifista”. Lo racconta in un libro uscito per Carocci Alberto Mario Banti, docente di Storia culturale all’Università di Pisa.

Alberto Mario Banti e un libro dedicato a The Beatles: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Carocci)

«Lasciatemelo dire, non ha avuto nessun effetto su di me. Non lo possiedo nemmeno. Pensai che contenesse alcune delle peggiori canzoni che io abbia mai sentito in vita mia. Mr. Kite… assolutamente insopportabile. Non mi piacque allora, e non mi piace adesso». Così Lou Reed, non uno qualsiasi in coda dal fornaio, a proposito di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band: non proprio su Fragole e Champagne di Achille Lauro, dunque.

Lou Reed, si è detto, e non il primo che passa, e allora proviamo a prenderlo sul serio, Lou Reed, partendo dalle sue stesse parole. Riascoltiamo Being For The Benefit OF Mr. Kite, dopo anni, e ci scopriamo molto vicini a un giudizio certo ingeneroso, tutt’altro che ingenuo e, per più versi, sospetto di meditato parricidio da parte di chi, anche così, rivendicava altra e ben diversa primogenitura, al gusto wharoliano di banana, per la cultura e alla controcultura pop.

Ammettiamolo. Se non ci sentiamo di definire, come Lou Reed, «ridicolous» diverse canzoni dell’album è più per un senso di venerazione postuma e sacrale tributata ai genitori di quel disco epocale, che non per puntuale e motivabile convincimento estetico.

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ovvero di cuori semplici e di grandi opere pop

A questo punto, quindi, la domanda è: siamo certi, con Sgt. Pepper’s, di trovarci davanti a una sequela di capolavori? Giacché nulla di meno è giusto pretendere da un album acclamato come una delle pietre miliari della popular music del XX secolo; anzi, non di rado, come il più grande disco del XX secolo.

La risposta, poco oppugnabile ci pare, è che no, non sempre di capolavori si tratta, anzi, quasi mai di capolavori si tratta. When I’m Sixty Four, la prima canzona composta da McCartney, non lo è, con il suo swing da dopolavoro ferroviario. Perdio se non lo è Lovely Rita e nemmeno Good Morning, Good Morning, con il suo gallo, né She’s Leaving Home, con la sua lacrimosa storiella borghese di lei che lascia la casetta perché si vuol divertire, piccina che non si diverte mai.

Non mi immagino, lo confesso, nessun piccolo rocker in erba che imbraccia una chitarra in salotto sulle note di Fixing A Hole, ripetendo a se stesso: “diventerò una rock star e scriverò canzoni come Within Or Whitout You”. Non ce la faccio, non credo sia mai avvenuto, se non in casi degni di pietas clinica.

La title track è un sapido e ben notevole pezzo rock, ma i brani veramente in grado di sintonizzarsi con la più alta frequenza dei Beatles sono tre in tutto, su tredici (o dodici): Lucy In The Sky With Diamonds, A Day In The Life e With A Little Help From My Friends.

Il fascino del disco a 57 anni dall’uscita

E allora, da dove origina questa fama di inarrivabile vetta sonora incollata perennemente a questo lavoro che compie, in questo 2024, cinquantesette anni? Può un album considerato eccelso esser composto di tessere che, per tre quarti, non lo sono? Dove sta la chiave?

Neanche sotto i ferri della tortura più bieca ascriveremo a merito di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band il fatto d’essere il primo concept album della storia del pop, giacche, almeno per chi scrive, tali lavori hanno servito ben più di frequente il Male che il Bene. Non si potranno forse incolpare della notte dello spirito che non di rado ha avvolto la fenomenologia del progressive rock, ma sono assai spesso ai primissimi posti di epocali, musicali, sfaccettamenti di gonadi.

Noi siamo fra coloro che, non da oggi, sono convinti che la risposta abbia da essere cercata fuori dal campo della musica. Crediamo cioè che Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band non sia un album musicale, ma un fatto socio-culturale, nel quale i valori musicali sono stati immediatamente trascesi e, se mi si consente, smaterializzati e scomposti per sempre, a significare altro da loro.

Lo era, lo è stato, un album, Sgt. Pepper’s, ma per poco, per pochissimo. Non il migliore di sempre, né il migliore dei Beatles, però, si è da subito cristallizzato come una tessera smagliante del tempo che lo ha partorito, salutando in grande stile la curva dell’estetica musicale per sedersi, da re, nell’unico posto che veramente gli si addica: quello dei fenomeni popolari e di massa del Ventesimo secolo.

The Beatles: Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band e l’analisi di Alberto Mario Banti

Da qualche mese, ci conforta in questa nostra convinzione (sensazione bella quanto poche altre, diciamolo, perché ci fa sentire intelligenti) il bellissimo libro che Alberto Mario Banti ha dedicato alla questione: The Beatles: Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band, edito da Carocci nella collana “Dentro la musica”.

Alberto Mario Banti – The Beatles Sgt Pepper Carocci

Banti fotografa il disco per quel che è, nella sua duplicità: un album di canzoni popolari, da un lato, un prodotto cioè fatto di note e testi, sospeso musicalmente fra passato e presente della band di Liverpool; un’icona facile da digerire, anche agli stomaci deboli musicali, mirata, consapevolmente, ad attrarre bacini d’ascolto non tradizionali non alienandosi al tempo stesso quelli tradizionali del gruppo. Dall’altro, la carta d’identità della cultura giovanile sullo scorcio degli anni Sessanta.

La lettura che Alberto Maria Banti dà di Sgt. Pepper’s è  quella di un grande, inimitabile crossover, di un’operazione di potente e ponderata semplificazione a beneficio delle masse dei messaggi portanti della controcultura esplosa sulla west coast americana, che aveva fatto il suo saluto al sole nell’estate 1966 e che nell’arco di un triennio si sarebbe spenta, pur lanciando, quel tramonto, raggi lunghissimi.

C’è di tutto, in Sgt. Pepper’s, degli umori del suo tempo: l’India, la cultura delle droghe, Thimoty Leary e Marshall Mc Luhan, l’America, ma anche la piccola Inghilterra, con i suoi quadretti e le sue conformistiche olografie. L’nformale di A Day In The Life convive con i testi piccolo borghesi di Lovely Rita e dell’insopportabile She’s Leaving Home. Cè posto per il colto e l’inclito, in questo grande circo, ma anche per il semplice e l’anziano, come per il giovane e l’inesperto.

Banti rende ben chiaro il punto essenziale che riguarda un disco dalla natura ben più ambigua e respingente di quanto si pensi, in termini di affezione musicale. A differenza di tutti i dischi pop e rock che vennero prima e dopo verranno, Alberto Maria Banti mostra, attraverso un’analisi condotta con rigore scientifico di documentazione, musicologica e sociologica, Sgt. Pepper’s nella mutazione genetica di un prodotto che nasce disco e subito cambia la propria funzione sociale e culturale, sfoderando una coda di pavone di significati e sovrasensi che poco o pochissimo hanno a che fare con la musica ed i suoi intrinseci valori e molto, invece, con l’arte pop (ed in questo Sgt. Pepper’s è un prodotto sommamente colto).

Già, perché l’operazione Sgt. Pepper’s nulla ha da invidiare alla provocazione intellettuale di Wharol, e con effetti misurabili ben oltre il cerchio di caduta delle amatissime, da chi scrive, banane estraibili dei Velvet Underground, troppo colti e troppo dentro quella controcultura della quale Sgt. Pepper’s è anche, e non stupisca, oltre ad una semplificazione, una astuta caricatura, che fa sorridere al pub, una volta di più, su questi strampalati americani i cui colori sgargianti e le cui mode stravaganti stanno varcando l’oceano.

Un libro filologico

Precisissimo l’inserimento del disco nel percorso musicale dei Beatles, nel loro retroterra, nella loro preistoria, nella cultura popolare britannica e nei suoi complessi legami con la controcultura Usa. Arricchito da precise analisi sulla struttura dei brani (illuminante addirittura quella che riguarda A Day In The Life), perché comunque sia, di musica si tratta, e la musica ha un linguaggio, Banti ha, crediamo, un duplice merito, che va ben oltre l’aver scritto un gran bel libro (assai godibile, peraltro, alla lettura):  quello di aver disegnato un modello, applicabile ai prodotti musicali sì, ma più generalmente artistici, della cultura pop germinata negli anni Sessanta, e come tale replicabile su altri oggetti d’indagine, intesi come parte integrante di processi culturali della società di massa. E forse, questo sarà quanto più gli sta a cuore.

Ma il libro ha anche il merito, che a chi scrive non sta a cuore di meno, di aver descritto, smontandone i meccanismi, quella che Marcel Proust definiva la “cattiva musica”, la musica popolare: fatta di scorie, di imperfezioni, più piccola di quanto vorremmo, ma più grande di quanto sapremmo dire e fare; che non trova in se stessa il proprio fondamento estetico e la propria ragione di esistere, a differenza della musica colta. Ma lo trova nelle lacrime e nei sogni delle donne e degli uomini del tempo in cui è nata. Anche in quelli delle piccole Rite, o dei piccoli sindaci dei paesi del cuore. Ed anche nelle loro, tanto tradizionali, un po’ ridicole bande da cerimonia, nelle tante piccole buone cose di pessimo gusto di cui si nutrono l’immaginario, e alla fin fine la vita, di tutti noi.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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