Con Friar Tuck prosegue la saga sherwoodiana di Julian Cope.
Il tanto abusato termine “divisivo” ben si sposa con Julian Cope, o lo si detesta con veemenza o lo si ama, talvolta, come in questo caso, con qualche condizione.
L’amor lo si dimostra acquistando le sue ultime emissioni direttamente dalla sua Head Heritage, senza attender vengano rese disponibili, cosa che non sempre accade, nei normali odierni canali di distribuzione. E calcolando costi del prodotto, spese postale brit e costi doganali, è amor che costa un pò.
Inoltre, caso ormai più unico che raro, nulla è reso disponibile in streaming, per cui non vi sono anticipazioni, o lo si compra o lo si compra…
Dopo Robin Hood arriva Frate Tuck
Dopo il precedente Robin Hood, prosegue quindi la saga Sherwoodiana con questo Friar Tuck, nei credits il nome di Cope non appare, le songs sono state composte da Robin H.Hood e ben sanno i fans quella H per chi sta e le 12 canzoni contenute nel disco ripropongono gli ultimi stilemi copeiani, forse con qualche rimando all’atavico Fried senza toccarne i vertici.
La fase è quindi quella con prevalenza acustica, qualche inserto mellotron vintage, qualche moderato wah-wah, batteria basica. Dall’assenza di note di copertina si suppone sia tutta farina esecutiva del sacco Cope e quindi non ci si attendano perizie e frilli e lazzi strumentali. L’intenzione dell’autore è nuovamente quella di porre l’accento sulle attuali posizioni politiche declinandole in un Medioevo che appare quindi metafora attuale, checché autorevoli storici affermino si stesse persino meglio di ora, il che è tutto dire.
Poichè Cope è Cope si accettano quindi le imperizie tecniche, i missaggi bizzarri, gli strali a tratti senili, ma sempre ammantati di un sarcasmo tutto suo che lo rende voce ormai rara.
Considerazioni sul Julian Cope odierno
Quelle di Friar Tuck sono canzoni a volte in salsa Barrettiana, suo evidente vate da eoni, canzoni che potrebbero essere intonate intorno ad un fuoco dopo diverse pinte di gervogia o declamate da un improvvisato palchetto in Hyde Park, insomma non paragonabili alle fasi giovanili di Cope (mai stato un vero e proprio hitmaker salvo il caso Saint Julian), ma figlie di una libertà artistica che, non avendo veti o freni dall’industria, può concedersi il lusso di non cercare alcun appeal commerciale. C’è però il rischio di un effetto boomerang quando il troppo personale resta tale ed esce dall’ambito della comunicazione musicale.
In attesa di un probabile terzo capitolo, chissà se su Little John, Lady Marian o lo sceriffo di Nottingham, si continua a volergli bene anche così, sperando che un compromesso con il suo pubblico ci restituisca la sua genialità in forme più strutturate e consone a non renderci sempre necessariamente meri fedeli.
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