I Mudhoney dal vivo a Firenze, 12 settembre 2024.
Salgono sul palco del Viper cazzuti, col sorrisetto beffardo di chi farà la propria cosa e magari si divertirà nel farla.
Mi sono perso il gruppo d’apertura (Sowt, che mi si dice siano stati notevoli), ma alla mia età un concerto alla volta è già abbastanza.
Era una vita che li volevo vedere dal vivo, Mudhoney, il MIO gruppo dell’era del grunge. Superfuzz Bigmuff resta per me uno dei più grandi singoli di sempre, una bomba, con quella canzone (sì, proprio quella) che fu per me l’apripista al suono di Seattle assieme a Love Buzz dei Nirvana – e li avessi comprati quei 45 giri targati Sub Pop, all’epoca li ho avuti sotto le mani…
Dal vivo i Mudhoney sono sempre esplosivi
Partono con uno dei miei pezzi preferiti, If I Think, proprio dall’ep d’esordio. Il suono è sporco quanto basta, ma sono troppo sotto al palco per dare un giudizio obiettivo sull’acustica, che comunque mi soddisfa.
La prima parte è a due chitarre – Mark Arm e Steve Turner, che con la batteria di Dan Peters sono i membri storici, mentre Guy Maddison ha aggiunto il proprio basso all’inizio degli anni 2000.
La voce di Mark è grezza, potente e scalda il cuore. Steve lo guarda di soppiatto e sorride, quante ne hanno viste assieme. Ma è Dan la vera macchina da guerra, un drumming massiccio e implacabile, che a un certo punto si concederà pure un lungo, lunghissimo solo, nel tripudio generale.
Il pubblico è quello giusto, composto da attempati e nuove leve (salutate da Mark con gratitudine). Pochissimi i telefonini alzati, deo gratias.
Un concerto fra un passato che commuove e un presente che convince
Il concerto avanza inesorabile fino all’apoteosi di Touch Me I’m Sick, piazzata lì, a metà, una scossa come raramente mi era capitato, a chiudere un dittico del cuore con Sweet Young Thing (Ain’t Sweet No More). E siccome sono pure subdolamente ironici, ecco la sbarazzina Little Dogs a riportarci coi piedi per terra, tratta dall’ultimo album, Plastic Eternity. È un disco pienamente riuscito, come dimostrano anche Souvenir of My Trip e l’inno istantaneo Flush The Fascists. Nelle canzoni con una sola chitarra, Mark può gigioneggiare (si fa per dire) con il microfono.
Siamo sopra un kayak su un fiume in piena, fino a che non arriva la pausa che condurrà ai bis.
La chiusura è con una gran versione di In ‘n’ Out of Grace, altro gradito, doveroso e appagante salto nel passato.
Le orecchie, per la cronaca, mi fischiano ancora.