Nick Cave Milano

Il Wild God tour di Nick Cave & The Bad Seeds a Milano.

Il Wild God tour di Nick Cave  & The Bad Seeds ha fatto tappa, unica data italiana, ad Assago, nel giorno del signore 20 ottobre 2024. Ma qui è già necessaria una premessa.

Chi scrive è convinto che Nick Cave non riesca più a trovare completamente la strada del vero dal tempo di The Boatman’s Call, disco di tale ricchezza e intensità di creazione da lasciare ancor oggi sbalorditi e da rifrangere gli splendori di quello scuro e meraviglioso moto ondoso anche nel successivo, bello ma non ugualmente bello, No More Shall We Part.

Chi scrive è convinto anche che, esauritasi con gli anni Novanta l’età aurea del cantante australiano, dopo l’elegante e asciutta bellezza di Push The Sky Away Nick Cave non abbia messo insieme più alcun grande album e, mi sento di dire, non abbia scritto più nessuna vera grande canzone (no, nemmeno sotto tortura ammetterò che Bright Horses sia una grande canzone), limitandosi, fra pochi alti e diversi bassi, a sopravvivere a se stesso e al proprio talento con dignità.

Aggiungo anche d’essere conviito che se la dipartita di Blixa Bargled e Mick Harvey è discesa forse dal naturale corso delle cose e da un dispiegarsi diverso di vite artistiche, il sodalizio con Warren Ellis,  consumata ormai da anni una indubitabile propulsione creativa, stia portando sulla lunga distanza più male che bene (a cominciare dalle soporifere colonne sonore di perdibilissimi film). Penso infine che i Bad Seeds nelle loro splendenti ultime incarnazioni – impreziositi ad Assago dalla presenza di Colin Greenwood dei Radiohead già ben operante in Wild God – non siano più un luogo di elaborazione ed ardita sperimentazione musicale, ma degli accompagnatori di gran classe.

Un giudizio sul disco

Detto ciò, posto che posso sbagliare su tutto, figuriamoci su Nick Cave, veniamo ad Assago (anzi, torniamoci). Stupirsi che il Wild God tour porti in giro, neanche a dirlo, il disco Wild God, non si può. E Wild God è, a giudizio di chi scrive, un disco molto, molto modesto o per essere più chiari un pastone opaco di ballate dall’animo gospel che già domani dimenticheremo. Incomprensibili gli entusiasmi che ne hanno accompagnato l’uscita, scusabili solo se paragonati al moto di sorpresa che ci coglie all’incontrare per strada un amico che si credeva morto da dieci anni (e che poi in realtà è morto davvero).

Inevitabile, quindi, che la presenza integrale dell’ultimo lavoro nella scaletta milanese, con la sola eccezione di As The Waters Cover The Sea (dimenticabilissima fra tutte, in effetti) non solo abbia segnato un passo più fiacco ed emotivamente più opaco in uno spettacolo di grande qualità musicale, ma abbia tolto spazio al riaffacciarsi di memorabili canzoni del bel tempo che fu.

Nick Cave in forma ad Assago

Il titolare della ditta, però, va detto, a Milano si è presentato in gran forma fisica e vocale, carico di energia, capace di guizzi di ironia, scevro da quella triste mutria di lamento che lo ha negli ultimi anni fin troppo afflitto, e, come al solito, performer di eccezione dall’indiscutibile carisma e dalla incontenibile forza di trascinamento.

Anche qui, adagio. I concerti di Nick Cave son concerti. Non sono battesimi naif, apocalissi a metà prezzo, lavacri salvifici e catarsi a costo di biglietto per anime semplici; non sono funzioni luterane, non siamo nella casa di Dio né in quella del diavolo, né egli pare sul serio pensarlo e crederlo, per quanto impeccabilmente vestito, al solito un po’ da gangster di Melbourne un po’ da venditore di Bibbie dell’Alabama, e per quanto seriamente egli prenda (e molto seriamente da sempre la prende) la parola divina.

Volontariamente ridimensionata, rispetto ai tour precedenti, l’ansia di contatto e fusione fisici con il suo pubblico, deposta quella maschera ostentatamente sciamanica che iniziava a stancare anche chi gli vuol bene e tutto gli perdona come il sottoscritto, Nick Cave si è offerto ai quasi undicimila spettatori di Assago solare, padrone e signore assoluto del palco. Tupelo, From Her To Eternity, The Mercy Seat e Jubilee Street gli articoli del catalogo in cui la potenza evocativa ed ossessiva della musica più si è sfogata ed in assoluto le vette del concerto.

Nick Cave

Defilato, più opaco del solito e meno determinante nel far battere il cuore dello spettacolo ci è parso invece Warren Ellis (ascoltare, per raffronto, la Jubilee Street di Padova, anno 2017, può dare un’idea). La stanca presenza di Ellis sul palco, per quanto impeccabile nella parte del funambolo ingobbito, ci è parsa il sintomo, se possiamo generalizzare, di un sodalizio al crepuscolo. Non sarà forse giunto il tempo degli addii, ma ci pare un fatto che in Wild God la pulsazione creativa di Ellis si avverta decisamente meno che in passato. Così come ci pare un fatto la sua ‘lateralità’ nello spettacolo milanese. Ma si può sbagliare su Nick Cave, si è detto, figuriamoci su Warren Ellis.

Alti e bassi di Nick Cave & The Bad Seeds e del Wild God tour

Peccato aver perso per strada qualche Deanna o Hey Joe o Higgs Bosom Blues e mille altre pallottole d’oro che abbondavano in una cartuccera d’eccezione, peccato anche per una Oh Wow Oh Wow (She’s so beautiful) che, già brutta di suo, è stata di certo il momento più maldestro della serata. Anita Lane è stata sinceramente e profondamente cara al cuore di Nick Cave, lo si sa. E a ricordarla, più che questa infelice canzoncina, bastavano il loro tempo insieme le bellissime parole che nel libro intervista Carnage Nick ha dedicato ad Anita e alla sua abdicazione all’arte in nome di compiti diversi e più oscuri ma non per questo meno profondi.

Viene infine da pensare che il gospel, tutto questo gospel di Wild God e tutto questo meditare parole di salvezza, faccia in fondo più bene a Nick che a noi (per quanto il coro sia stata presenza d’eccezione, sia scenica che vocale, per tutta la durata del concerto). E viene da dire anche che quell’insistito refrain “you are beautiful”, vero leitmotiv della performance, invito categorico a fermarsi e a riflettere sui tesori dell’anima e sulla bellezza del creato, avrà forse portato sperabili raggi di sole nel cuore di inchiostro di Nick Cave, ma in conclusione poca luce nella sua musica. Che però continua a brillare, per quella che fu la sua grande bellezza, duratura e inossidabile. E con lei il suo re, per il quale pare giunto il tempo, finalmente, di tornare a respirare.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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