patti smith live 1 definitivo

patti smith live 1 definitivo

di Sergio Crapiz

Compare sul palco felpata e quasi inavvertita la vestale americana, boots punkettari e blazer nero sbrindellato in un sontuoso omaggio a Baudelaire, giungendo puntuale alla celebrazione di un tempo che sembra scivolato via in un istante: 40 anni (!) dall’uscita dell’album d’esordio Horses. La cornice che incastona la scena è quella di una fabbrica dismessa di ceramiche a Santo Stefano Magra (Sp), circondata da deferenti colline sotto una luna piena gigantesca e perlacea che fa pensare al cortometraggio di Méliès. Ma qui è il rock di Patti a inghiottire tutti e la luna è come un disco (sono parole sue) sui cui solchi è incisa la nostra memoria acustica ed esistenziale. A riascoltare i fendenti sonori di quell’album carico delle promesse artistiche di un’intera generazione (che è anche quella di chi scrive), sulla cui copertina veniva ritratta poco più che ventenne dall’amico Robert Mapplethorpe nel candore di una luce newyorkese di fine estate – si scopre che le emozioni di quegli anni elettrizzanti non sono per niente sopite e le promesse si sono quasi del tutto inverate. Così come immutata, se non accresciuta, è la travolgente forza stregonesca di Patti, la sua straordinaria capacità d’incendiare il tempo, gli animi e le sensibilità musicali più diverse. E così, mentre in Land il ritmo cresce in volute a spirale con i noti richiami ai ragazzi selvaggi burroughsiani “… Johnny fell on his knee / Started crashing his head against the locker…”, eccola invitare il pubblico seduto sulle sedie numerate (nemmeno fossimo alla prima del Rigoletto) ad alzarsi in piedi e a danzare al suono di una rima impeccabile (“Stand up motherfuckers!”): tre distinti fiumi di lava scorrono paralleli verso il palco e rifluiscono in un vortice tripudiante proprio sotto di lei e il suo gruppo, il fedele e faunesco Lenny Kaye alla chitarra elettrica, Jay Dee Daugherty alle percussioni e Tony Shanahan al basso.

patti smith live 2Ehi, si chiama Patti Smith; confusione con Patty Pravo?

Tra i momenti più ispirati e intensi del concerto vanno ricordate senz’altro la rivisitazione delicatissima di Break It Up dedicata a Jim Morrison, concepito da Patti Smith come un angelo prometeico imprigionato nella pietra, che lotta come Michelangelo per liberare le forme artistiche dal grezzo marmo; ma anche Elegie, in cui ricorda come in un mantra ipnotico i tanti amici scomparsi: niente di monumentale o funerario, beninteso, ma un requiem struggente e visionario in cui si avvicendano i nomi dei tanti compagni di strada conosciuti e amati: tra gli altri Arthur Rimbaud, Jimi Hendrix, Fred “Sonic” Smith, Robert Mapplethorpe, Allen Ginsberg, Amy Winehouse, Lou Reed.
A quest’ultimo è dedicato un piccolo tributo nel finale che suona anche come una celebrazione di una grande stagione della scena newyorkese degli anni 70, con le versioni feroci e abbaglianti di I’m Waiting for the Man, White Light White Heat e Sweet Jane: “Peace, peace, he is not dead, he does not sleep, he has awaken from the dream of life”, sussurrava Patti nelle parole conclusive della bellissima biografia poetica che il regista Steven Sebring le dedicò nel 2008.

httpv://www.youtube.com/watch?v=3SDFglHgNqk

Per un ricordo dei concerti del 1979 del Patti Smith Group a Bologna e Firenze: https://www.tomtomrock.it/articoli/274-folgorato-dalla-lupa-bologna-e-firenze-9-10-settembre-1979-gli-ultimi-concerti-del-patti-smith-group.html

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