di Antonio Vivaldi
E’ un errore considerare importanti solo i dischi dove prevalgono tormento e/o estasi, cose come Benji di Sun Kil Moon oppure l’omonimo album di St Vincent, giusto per citare due uscite importanti del 2014. Capita a volte che lavori in apparenza sottotraccia riescano a fare breccia in chi ascolta con quasi altrettanta efficacia, per quanto in modo lento ed effusivo anziché sotto forma di emozioni ‘full frontal’. E’ il caso di Last War di Haley Bonar, artista la cui biografia è, a sua volta, un paradigma di sottotraccia geografico: nasce a Winnipeg, in Canada, per poi trasferirsi nel South Dakota e quindi a St. Paul Minnesota (dove, peraltro, viene notata da un personaggio importante del circuito indie, Alan Sparhawk dei Low). Pungente nelle sue critiche a persone e idee, eppure mai irosa né apertamente problematica alla Sharon Van Etten, Bonar inanella canzoni sinuose, suadenti e trasognate (come un sogno pare essere l'”ultima guerra” della copertina) che richiamano la new wave più elegante, i suoni epico-trasognati delle produzioni di Daniel Lanois, l’alt-rock ben strutturato di Andrew Bird, l’oscurità alla luce del sole degli ormai ubiqui Arcade Fire. Non ci si innamora perdutamente di Last War, eppure viene voglia di rincontrarlo/riascoltarlo spesso. Molte recensioni danno largo spazio alla presenza come vocalista di Justin Vernon (Bon Iver/ Volcano Choir) in due pezzi del disco. Peccato che per accorgersene occorra molto impegno, un po’ come succedeva a chi voleva ascoltare Romina nei duetti con Al Bano.
7/10
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Haley Bonar – Last War