di Marina Montesano
Forse qualcuno ricorderà la conclusione di Lose Yourself, quando in una gara di freestyle Eminem annienta il suo avversario minandone la “credibilità di strada”: è a capo di una gang, ma viene da una famiglia borghese e dalle scuole private, concludendo con i Mobb Deep che “there ain’t no such thing as halfway crooks”. Quel tipo di credibilità è uno dei punti fermi del rap gangsta, dunque di uno dei filoni di maggior peso nel genere. Jay-Z è stato un giovane spacciatore newyorkese prima di diventare una superstar hip-hop, probabilmente la più grande e certo la più longeva: lo spledido debutto con Reasonable Doubt è infatti del 1996. A partire da quel disco, Jay-Z ha costruito una carriera di rapper, ma anche di manager di straordinario successo. Il problema, però, e non solo suo, è: di cosa parlare all’apice di questa notorietà e di questa agiatezza economica per non fare la fine di Rick Ross, che rappava di gangs ma aveva un passato da guardia carceraria?
In Magna Carta…Holy Grail, Jay-Z ha deciso di scrivere, appunto, di notorietà e di agiatezza economica: tre quarti del disco sono un’ode alle sue immense ricchezze e al suo successo. In Picasso Baby, Jay vuole “a Picasso, in my casa, no ma castle”; e a Picasso si aggiunge una lista di nomi della pittura contemporanea (ma anche di auto, vestiti, profumi e … Beyonce) trattati con lo stesso stile della rockstar di un film di Woody Allen che vuole un quadro che si accordi con il divano nuovo (Hannah e le sue sorelle). Per Jay-Z questa sembra essere l’estrema evoluzione del bling-bling: dalle catene d’oro e diamanti a Warhol, Basquiat e Rothko il passo è tutto sommato breve. Andrebbe anche detto che la pittura contemporanea non avrebbe mercato senza le rock star versione Woody Allen, gli Jay-Z e i brokers di Wall Street-finché-dura: ma questo è un altro discorso, quindi torniamo al disco. La canzone (con la stessa base di Bad Girls di M.I.A.) dopo Picasso Baby s’intitola Tom Ford come lo stilista e Jay-Z vi celebra le sue notti parigine con Bordeaux, Borgogna e Riesling (lo champagne Crystal di un tempo ormai fuori moda e un po’ truzzo) e dichiara: “I dont’ pop molly (leggi ecstasy), I rock Tom Ford / International bring back the Concorde”. Che sia futile pare evidente allo stesso autore, il quale nell’iniziale Holy Grail proclama su un sample di Smells Like Teen Spirit: “And we are just entertainers /and we’re stupid and contagious”.
In un certo senso, l’ultimo Jay-Z sembra la nemesi dell’ultimo Kanye West, il che è interessante visti gli stretti rapporti tra i due. A parte i titoli ugualmente pomposi (Magna Carta…Holy Grail e Yeezus), a tratti pare di poterli leggere a confronto: Jay vuole tre settimane negli Hamptons (Jay-Z Blue) mentre Kanye riserva pessimi propositi nei confronti dei residenti di quell’area (e soprattutto delle loro mogli: cfr. il testo del mese di luglio, New Slaves); Jay guida felice la sua Maybach (BBC) mentre Kanye non ne vuole più sapere (ancora New Slaves); in Tom Ford Jay-Z dice “fuck hashtags and retweets” (non ne ha bisogno), mentre Kanye è notoriamente un frequentatore di Twitter, al quale spesso ha affidato le sue frequentissime polemiche e lamentele. Ma al di là dei testi, ci sono i featurings (Kanye sceglie l’indie Bon Iver, Jay-Z Justin Timberlake) e soprattutto le differenze musicali: Yeezus è un disco estremamente innovativo, mentre con Magna Carta…Holy Grail Jay-Z gioca sul sicuro.
Tuttavia sarebbe ipocrita formulare un giudizio negativo sul disco in base a quanto detto finora: si è letto (per esempio su Pitchfork) che contenuti di questo tipo (la ricchezza e il farne tanta mostra) lo renderebbero impossibile quale modello di identificazione per i suoi fans; dimenticando che il gangsta rap ha fatto fortuna anche grazie ai ragazzini bianchi del ceto medio ch’erano distanti da quel mondo quanto il recensore di Pitchfork da Maybachs e Hamptons. Il problema di Magna Carta…Holy Grail, semmai, è che non tutti i suoi 59 minuti meritavano l’incisione: FuckWithMe… e il duetto con Beyonce Part II (On The Run) sono deboli, il ritmo latino di BBC irritante. Altrove, però, il disco è godibilissimo, rendendo quasi vero ciò che Jay-Z afferma in Versus: “Your best shit ain’t better than my worst shit”. Le già citate Picasso Baby e Tom Ford, per esempio, sono ottime; così come i momenti più meditativi che arrivano verso la fine, con Jay-Z Blue (sulle ansie della paternità) e Nickels And Dime (sull’angoscia di perdere ciò che si è conquistato). Mentre Frank Ocean dà il meglio (e scrive e canta i versi più belli del disco) nella quasi omonima Oceans. Infine, un bonus per l’autoidentificazione di Jay-Z con la splendida Joan Crawford di Mommie Dearest (campionata in Jay-Z Blue): “Don’t fuck with me fellas / this ain’t my first time at the rodeo!”.
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