Bella apertura per Black Pudding, ovvero Mark Lanegan accompagnato da Duke Garwood
Black Pudding si apre con uno splendido strumentale per chitarra acustica in cui Duke Garwood evoca sinistri cieli alla García Lorca. Il bell’inizio è bissato dalla successiva Pentecostal dove Garwood recupera il blues barocco di Bert Jansch e John Renbourn per far entrare in scena Mark Lanegan con la sua voce acre e i suoi foschi paesaggi dell’anima. Ma la stoffa buona per il disco sembra finita qui e, salvo un paio di eccezioni, quel che segue è una sequenza di scoloriti scampoli di idee. L’inglese Garwood, si sarà capito, è un ottimo chitarrista, capace di creare atmosfere narcotiche sospese fra John Fahey e il Ry Cooder di Paris, Texas. Ma si tratta di atmosfere, appunto, e non di vere canzoni.
Black Pudding: molte atmosfere e poche canzoni
E c’è un altro problema: ormai Lanegan è sin troppo ovvio nel suo ruolo di cattivo-soggetto-con-talento-poetico, di piazzista della dissipatezza che sfodera a gettone storie di morte e peccato (il precedente Blues Funeral, pur agendo in un contesto venato di elettronica, risultava altrettanto monocorde). Un vero peccato perché un maggior lavoro sulla struttura dei pezzi e un minore autocompiacimento avrebbero prodotto un disco ben diverso .Insomma, con poco si sarebbe potuto avere molto. Shade Of The Sun, ad esempio, trova grande forza evocativa nella dimensione dell’’inno religioso;, al contrario, Death Rides A White Horse suggerisce certamente immagini da morte nel deserto, ma più per noia che per sete.
Pensiero rancoroso: una volta Lanegan era artista su cui si poteva contare, adesso viene voglia di contare i suoi vecchi dischi che si potrebbero vendere, incluso Mark Lanegan & Duke Garwood – Black Pudding. Per comprare il nuovo Daft Punk, ad esempio.
5,9/10