Recensione: Abiodun Oyewole – Gratitude

La storia complessa di Abiodun Oyewole: dai Last Poets a Gratitude.

Si scrive Abiodun Oyewole e si legge Last Poets: è lui uno dei membri fondatori del collettivo poetico che il 19 maggio 1968 (data scelta per onorare la nascita di Malcolm X) tiene il primo reading-concerto a Mount Morris Park (ad Harlem, lo stesso di Summer of Soul, che però arriverà l’anno dopo). Sono loro – insieme a Gil Scott-Heron – la voce più iconoclasta del Movimento per i diritti civili; e sono ancora loro ad essere indicati come i padrini del hip-hop contemporaneo. Oyewole all’epoca ha vent’anni: nel primo album del gruppo, omonimo pubblicato nel 1970, il suo timbro baritonale apre il disco declamando i versi amari di Run, Nigger. Nel disco successivo Oyewole non c’è: è in carcere, sta scontando quattro anni per furto. Grazie alla buona condotta ottiene i permessi per frequentare un college vicino alla prigione. Si laurea, intraprende la carriera accademica, alternando da quel momento l’insegnamento alla scrittura poetica. Negli anni ‘90 torna nei riformati Last Poets e nel 1994, insieme a un altro membro originario del gruppo, Omar Ben Hassen (autore di un brano storico come Niggers are Sacred of Revolution), lo troviamo al fianco di Pharoah Sanders per una rilettura di This is Madness nella compilation Stolen Moments: Red Hot + Cool.

In quello stesso anno pubblica il primo disco a suo nome, 25 Years (tanti ne sono passati dall’esordio), notevole raccolta in cui la presenza di Henry Threadgill e Bill Laswell assicura una solida base musicale ai versi del poeta. Come non accade in Love Has No Season del 2014, un album incentrato sulle relazioni e sull’amore, dove la precarietà del canto e di una voce non eccelsa, non trova le fondamenta in grado di sostenerlo adeguatamente. Ora è la volta di Gratitude (Fire Records), undici tracce corredate da un’ampia intervista in cui Abiodun Oyewole descrive in dettaglio il processo di scrittura dell’album.

Gratitude non rende giustizia alla carriera di Abiodun Oyewole

Rain, composta in un giorno di pioggia e dedicata ai genitori che l’hanno cresciuto. My Life, in cui è lui il padre che riflette sul rapporto con i figli. Fin da questi primi due brani, nonostante gli interventi vocali di Taylor Pace e di Melodie Nicole, lo scialbo accompagnamento musicale non fa che evidenziare la banalità di versi come Some of us want rain without thunder and lightning, or picking a rose without being pricked by a thorn. Le cose migliorano appena con Poem, sorta d’invettiva old style contro i falsi poeti che pullulano al giorno d’oggi. Harlem è un omaggio al cuore della cultura black, così come Brooklyn onora il quartiere più straight di New York (bello lo spoken word del poeta Ade da Poet).

 

To Begin non lascia traccia di sé, così come l’inno alla spiritualità Praise the Lord. In Spirit, Oyewole si lascia andare al canto, con risultati mediocri e ancora la musica non giova all’esito finale. Anche in Without You, dedicata alla compagna scomparsa, il poderoso intervento della poetessa Jessica Care Moore, viene vanificato da un insulso sottofondo di chitarra rock. Nella chiusura di What I Want To See, costruita su un semplice tappeto di percussioni si ritrova finalmente l’energia visionaria delle origini. Ma è troppo tardi e forse anche fuori tempo massimo.

Abiodun Oyewole – Gratitude
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Da ragazzo ho passato buona parte del mio tempo leggendo libri e ascoltando dischi. Da grande sono quasi riuscito a farne un mestiere, scrivendo in giro, raccontando a Radio3 e scegliendo musica a Radio2. Il mio podcast jazz è qui: www.spreaker.com/show/jazz-tracks

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