La strada che conduce Alison Krauss & Union Station verso Arcadia.
Era agosto 2011 quando, a Nashville, leggo che Alison Krauss & Union Station avrebbero suonato il giorno dopo al Ryman, the mother church of country music, the birthplace of bluegrass, e il mio posto a visibilità ridotta mi regalò comunque un concerto indimenticabile, dal tour di Paper Airplane, che sarebbe stato, fino a questo Arcadia appena uscito, l’ultimo album della band.
Dopo l’esplosione di Alison Krauss & Union Station fuori dai circuiti della scena bluegrass e Americana, dovuta anche al successo di Fratello dove sei? dei Coen, alla cui soundtrack Dan Tyminski e Alison Krauss avevano preso parte, i suoi membri hanno seguito le loro carriere soliste; inclusa, per la Krauss, la splendida collaborazione con Robert Plant da cui sono nati due album e i successivi tour che hanno toccato pure l’Italia.
Un disco breve e intenso
Ma il ritorno valeva l’attesa. Arcadia è un disco intimo, dieci brani per 35 minuti nel quale si sente tutta l’urgenza dei Alison Krauss & Union Station di raccontare un mondo dove la strada sbagliata è quella più semplice da seguire, e dove trovare raggi di luce e di speranza sembra davvero difficile. Ma non un album nato di getto, se è vero che la Krauss ascolta musica e cerca canzoni, o meglio storie, le ripone da parte per poi metterle insieme al momento giusto. L’album davvero parla dei “good old days when times were bad”, come ha detto in una intervista al NYT la Krauss: storie minori in chiavi minori, ma è inevitabile che il pensiero vada anche al presente.
Una band in parte rinnovata
Si inizia con The End Of The Road e si chiude con There’s Light Up Ahead, entrambe di Jeremy Lister, con il dobro di Jerry Douglas che segue la voce mentre canta good bye to the world that I know it seems the end of the road. La seconda traccia, One Ray of Shine, introduce Russel Moore, nuova voce maschile degli Union Station che si alterna in tutto l’album con Alison Krauss. Sostituisce il mitico ( e si dice antipaticissimo) Tyminski che ha suonato nell’album, ma ha definitivamente lasciato il gruppo.
The Hangman è un poema del ’51 di Maurice Ogden, artista colpito dal maccartismo, messo in musica da Viktor Krauss, musicista e fratello di Alison: il boia che arriva in paese e uno dopo l’altro giustizia tutti coloro che lo meritano fino a che non rimane nessuno di coloro che non si opposero, sicuri che non sarebbe toccato a loro. È una sorta di murder ballad, così come Granite Mills, dove ancora una volta Moore ci racconta, riprendendo un pezzo folk di “public domain” (come l’altro traditional presente nell’album, Richmond on the James), dell’incendio del mulino a Fall River, MA, che causò la morte di tanta povera gente, tra cui molti bambini; persone che avrebbero potuto essere salvate, ma che — forse proprio in quanto povera gente — furono abbandonate al proprio destino.
Perché, in questi tempi bui, ascoltare brani — diciamolo pure, usiamo quella parola che temiamo — “tristi”, in cui l’Arcadia sembra non essere mai esistita? Perché a suonarli sono alcuni tra i migliori musicisti della scena americana e bluegrass, con voci limpide che commuovono — ma sono happy tears, tanta è la bellezza delle armonie e dei testi. E perché, alla fine, the silence tells the sun to give her one ray of shine.
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