Andy K Leland e un EP di rara (e poco italica) bellezza.

Da questo tristo e triste paese viene voglia di scappare ogni giorno di più. Nemmeno la musica è un invito a restare, visto che quasi sempre c’è più scena che sostanza. Forse è un nostro difetto strutturale dalla fine del Rinascimento in avanti.
Ciò inutilmente premesso, è persino imbarazzante aver perso di vista fino a oggi un raro lavoro di grande pregio come Happy Daze di Andy K Leland, ovvero Andrea Marcellini, già bassista degli italo-islandesi My Cruel Goro. E’ un EP con sei brevi, intensi pezzi che si presenta subito con due carte vincenti. Intanto è molto poco italiano, non solo per il cantato in inglese, ma per il suo guardare a un mondo sonico del tutto extranazionale. Poi è un disco senza sicumera e senza specchi del reame davanti alla chitarra.
Happy Daze: quasi solo chitarra e uno strano modo di cantare
La chitarra in questione è peraltro quasi tutto quel che si sente nell’EP insieme alla voce. Una voce strana che pare arrivare sulle labbra con circospezione e con la strana caratteristica di fondere le parole una nell’altra sino a formare un curioso continuum verbale. Quanto alle parole, Happy Daze si propone come un lavoro di poco sole, a tratti anzi plumbeo, con una traccia finale (Farewell) che chiude le porte alla speranza. O alla vita tout court. In questo suo essere poco incline alla gioiosità Leland/Marcellini è affine a figure come Mount Eerie, Sufjan Stevens ed Elliott Smith, E non è implausibile un paragone con l’ultimissimo Nick Drake, quello dei quattro pezzi usciti solo post mortem.
La “malinconia costruttiva” di Andy K Leland
Eppure questo non riesce a essere un disco deprimente. Ad esempio, c’è qualcosa nella limpidezza melodica delle canzoni, così come nel loro andamento, che rende l’insieme emozionante e dunque vitale. Si potrebbe parlare di malinconia costruttiva, come diceva il titolo di un disco antologico dei Pearls Before Swine di Tom Rapp, altra figura un po’ affine a Leland. Lo stesso gioco di luci e ombre fa mostra di sé nella registrazione che è certamente lo-fi, salvo sfoggiare una nitidezza tutta sua.
C’è dunque un lavoro di articolazione ben percepibile in Happy Daze. C’è sofferenza, senso di vuoto, ma anche una possibilità di futuro che, auspicabilmente, potrebbe produrre altra eccellente musica.
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