In cerca di rivincita, ecco gli Arcade Fire di WE
Sono passati cinque anni da Everything Now, da molti considerato il primo passo falso per gli Arcade Fire, che qui era piaciuto abbastanza pur senza entusiasmi. Non è invecchiato bene, va detto, a parte qualche momento felice; e non c’è dubbio che la band, abituata a recensioni ben più entusiaste, non l’aveva presa bene, come evidenziato da alcune interviste. Il nuovo disco, WE (Columbia), è stato anticipato dall’annuncio del più giovane dei due Butler circa la sua uscita dal gruppo: ha partecipato alla registrazione, ma non sarà in tour ed è un peccato, dal momento che in concerto era una bella presenza. È stato anticipato anche da un paio di canzoni apripista che hanno lasciato non pochi dubbiosi, fra discorsi su ritorni alle origini (Funeral) e timori per una svolta come quelle vissute da altre band indie divenute pop-rockstars con non grandi risultati (U2, Coldplay).
Chi c’è nel disco
Gli Arcade Fire hanno mantenuto il resto segreto fino agli ultimi giorni, ma adesso WE è uscito accompagnato dai credits: la scrittura delle canzoni si deve a Win Butler e Régine Chassagne che si occupano anche della produzione insieme a Nigel Godrich, celebre soprattutto come produttore dei Radiohead e che qui non lesina in magniloquenza. Spuntano anche collaborazioni con Josh Tillman / Father John Misty, Geoff Barrow / Portishead e Owen Pallett – tutti accreditati per arrangiamenti o produzione aggiuntiva, dunque non si sentono ‘direttamente’ sul disco, al contrario di Peter Gabriel, che presta la voce su Unconditional II (Race and Religion); ma è un cameo come quelli dei film, che non sempre aggiungono molto. Il tutto in 40 minuti e 10 canzoni incluso un Prelude di 30 secondi.
Le canzoni
Il disco parte molto bene con Age of Anxiety e Age of Anxiety II (Rabbit Hole) – già sappiamo che i numeri 1-2 e oltre come partizioni interne sono una fissa degli Arcade Fire, che in WE se ne approfittano – con una netta preferenza per la seconda, il momento migliore dell’intero album, ma è bello l’insieme come una progressione dal lento atmosferico al crescendo dance-sintetico. Tuttavia, con il denso episodio successivo si cambia tono, e non per il meglio: End of the Empire I–III ed End of the Empire IV (Sagittarius A*) pescano nella ballata anni ’70, la prima citando chiaramente Imagine, la seconda richiamando più genericamente Hunky Dory. Non sono male, passano piacevolmente, però smorzano il fun creato da Rabbit Hole.
The Lightning I e II sono le canzoni uscite prima del disco, e si ribadisce la sensazione degli ascolti iniziali: la prima rinvia a ciò che si diceva, cioè un suono indie che si adegua agli stadi con risultati poco felici, mentre la seconda è molto carina, frenetica, potrebbe richiamare gli esordi degli Arcade Fire e sarà bella live (il tour è stato appena annunciato). Unconditional I (Lookout Kid) e Unconditional II (Race and Religion), di nuovo, usano la numerazione per due momenti piuttosto diversi fra loro: la prima è una tipica espressione del “suono Arcade Fire” e si ricorda facilmente, magari anche perché richiama parecchio Creature Comfort da Everything Now; il secondo episodio è cantato prevalentemente da Régine Chassagne (con il supporto di Gabriel, come detto) ed è un pop simpatico che non lascia traccia. Chiude la delicata title track, che negli accordi iniziali richiama Cattails dei Big Thief.
Arcade Fire – WE: il giudizio
Quanto ai testi, sebbene molte delle fascinazioni religioso-apocalittiche che hanno accompagnato la band in tutti questi anni siano ancora presenti, siamo lontani dalla finezza di The Suburbs. Qualche buon momento, qualche eccesso di citazionismo, qualche passaggio a vuoto. Questo, in sintesi, posso dire di WE. Ho amato molto gli Arcade Fire, ho acquistato i loro dischi e li ho visti molte volte dal vivo; per anni mi sono sembrati una fra le non molte novità interessanti del panorama rock (o pop) di questi anni ’00. In WE non trovo nulla che mi faccia disconoscere quell’amore, ma allo stesso tempo neppure qualcosa di abbastanza forte da rinfocolarlo. Forse è il percorso normale per una band che pubblicava l’esordio diciotto anni fa e che nel frattempo ha saputo scalare le classifiche proponendo un suono vario ma al contempo personale. Tanto vale prendere ciò che di buono hanno ancora da offrire nel 2022 senza farsi troppe illusioni.
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