Benjamin Booker - LOWERFire Next Time Records

Il ritorno di Benjamin Booker con LOWER.

Siamo un po’ sommersi e bombardati da una quantità spropositata di album e nuovi artisti da mettere alla prova, che alla fine si rischia di dimenticarsi un poco di quelli che già qualcosa lo avevano dimostrato. È il caso di Benjamin Booker, uno che con i due primi album (l’omonimo del 2014 e Witness del 2017) aveva portato una ventata di freschezza nella black music, con un suo personale mix di blues, rock e atteggiamento indie che aveva destato interesse e la sponsorship di Jack White. Anche dal vivo Booker fu di scena in parecchi festival in quegli anni, rubando spesso la scena a nomi più blasonati. Sono passati 8 anni e di lui quasi ci si stava dimenticando, ma questo LOWER (scritto tutto maiuscolo come anche i titoli delle canzoni) ha tutta l’aria di essere uno di quei lunghi parti artistici che lascerà più il segno.

Kenny Segal alla produzione

La mossa a sorpresa è quella di affidarsi al produttore Kenny Segal, guru del mondo hip-hop che ha portato in dote un approccio completamente diverso, non so se definirlo moderno visto che poi il risultato, per quanto sperimentale, non è affatto nuovo. L’iniziale BLACK OPPS rende subito chiaro il concetto, con il suo riff hard-blues sommerso da voci filtrate e tastiere, o nell’ipnosi elettronica subito successiva di LWA IN THE TRAILER PARK. La tendenza è fare un gran mix di tante ispirazioni, persino quelle più “rootsy” che animano le chitarre di POMPEII STATUES, mentre SLOW DANCE IN A GAY BAR tiene fede al titolo con un suadentissimo dream-pop da struscio sulla pista della discoteca.

Benjamin Booker  –  LOWER: un disco politico

Ma la caratteristica da non dimenticare è anche quella dei testi fortemente polemici su società e politica americana, con lo zenith raggiunto in REBECCA LATIMER FELTON TAKES A BBC, brano decisamente sperimentale che sbertuccia una nota avvocata suprematista e nemica dichiarata della black-community, e se non capite il senso del titolo, provate a inserirlo nella ricerca di una qualsiasi sito pornografico e vi sarà tutta chiara l’ironia.

Il disco intrattiene bene, anche se poi a lungo andare, svelate le nuove carte, il gioco si fa più ripetitivo, ma si fanno ancora notare la quasi jazzy SAME KIND OF LONELY con il suo suggestivo video e i tanti samples usati per la base, e la finale HOPE FOR THE NIGHT TIME, mentre SHOW AND TELL si segnala come l’unico brano in continuità col suo passato anche nella produzione più acustica e tradizionale.

Quello che però piace del disco è che le atmosfere apparentemente glaciali create da Segal ben si sposano con i toni per nulla accomodanti di uno dei dischi più feroci dal punto di vista della lotta e orgoglio razziale che si sia sentito negli ultimi anni, con semplici slogan di rabbia e rivolta (SPEAKING WITH THE DEAD) che riportano ad un clima degno dei più riottosi anni 60. Un buon segno in un’era in cui da più parti si sottolinea quanto la musica abbia perso ornai totalmente la propria forza rivoluzionaria e la propria influenza sulla società. Non che il disco di Booker possa cambiare qualcosa dei tempi bui in cui è stato concepito, ma probabilmente il tentativo di fare un nuovo There’s a Riot Going On di Sly & the Family Stone per club, ad uso e consumo dei disc jockey, è perlomeno encomiabile.

Benjamin Booker - LOWER
7,5 Voto Redattore
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Scrive regolarmente di musica dal 1992 per varie testate e siti web di settore (Mucchio Selvaggio, Il Buscadero, Rootshighway, FilmTV). Nel 2009 il suo racconto La Pistola ha ottenuto la Menzione Speciale della Critica al Concorso Quaderni Rock del MEI. Nel 2010 ha pubblicato Rolling Vietnam – Radio-grafia di una guerra (Pacini Editore), nel 2017 il thriller Musical 80 (WLM).

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