In attesa del film, gli album perduti: Bruce Springsteen – Tracks II: The Lost Albums.
Si può ancora scrivere sull’opera di Bruce Springsteen? Si può ancora riuscire a dire qualcosa di originale, qualcosa di già non detto. Dopo più di cinquant’anni di musica forse non vale nemmeno la pena provare a fare un bilancio. Di Springsteen del resto ormai conosciamo vita, morte e miracoli. A breve uscirà anche un film dedicato alla realizzazione di uno dei suoi album più intensi, Nebraska. Un film tratto dall’ottimo libro di Warren Zanes, Liberami dal nulla, edito in Italia da Jimenez edizioni, che, si spera, sarà più decente dell’osannato A Complete Unknown, anch’esso ispirato ad un altro bel volume, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, di Elijah Wald.
Un commento ‘a caldo’ sui 9 LP
E proprio dal periodo tra Nebraska e Born in the USA inizia questo Tracks II: The Lost Albums, appena uscito. Si tratta di una mole enorme di brani quasi del tutto inediti, che coprono un arco di tempo molto ampio, dal 1983 al 2018. Trentacinque anni. Va detto subito: piuttosto che una recensione, queste poche righe non vogliono essere altro che l’espressione di sensazioni avute da un primissimo e veloce ascolto dei 9 LP che compongono il cofanetto. Parliamo, per la maggior parte di brani finiti, lavorati, arrangiati e registrati. E sui quali Springsteen, negli anni, aveva messo un punto fermo. Tranne che per le LA Garage Sessions ’83, il primo dei lost albums, nessuno degli altri brani riporta l’idea del demo, del provino, delle takes interrotte dal fonico, cioè una sorta di ‘riempitivo’, come quelli di altre aperture di archivi musicali eccellenti (Young, Zappa, Hendrix, lo stesso Dylan e altri).
Tracks II: The Lost Albums mostra un Bruce Springsteen differente da quello degli stadi
La prima impressione è che si tratti di un ritratto intimo. Un mettersi a nudo completo. È l’uomo solitario delle Streets of Philadelphia Sessions. Il western, il cantante country o il bluesman malinconico. Deserti, caldo, praterie, sole. E poi il confine. Quello tra USA e Mexico. Quel confine, e non solo quello, che lo fa scagliare contro Trump e la nuova amministrazione americana. E sono i dischi Faithless, Somewhere North of Nashville e Inyo. O ancora il crooner con orchestre al seguito e Sinatra in mente (Twilight Hours) Infine il rocker da migliaia di spettatori (Perfect World).
Bruce sembra ormai aver fatto i conti con tutte le sue passioni musicali. Senza remore. E senza incertezze oggi riesce a mostrarci che negli anni ha svestito i panni del Boss, per scrivere e cantare ciò che gli andava più a genio. Questo sembra venir fuori dal primissimo ascolto di questo enorme Tracks II. Certo il livello dei brani non è sempre lo stesso, talvolta una vena di stanchezza, in qualche caso un po’ di ‘stallo’. E del resto si tratta di brani che Springsteen in principio ha lasciato fuori dalla sua produzione ufficiale. Per qualcuno ha avuto ragione. Altri, anzi molti, invece, non avrebbero sfigurato sui dischi ufficiali. Li sentiamo oggi. E ne sentiremo ancora.
Mi sembra quasi che Bruce voglia dirci di ascoltarlo con lentezza, questo regalo. Un po’ alla volta. Piano piano. Forse ha pensato anche alla nostra, di intimità. A volte stare con sé stessi fa bene. E lui l’ha fatto. Ed ha chiamato anche noi.
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