Things Take Time, Take Time è il terzo album di Courtney Barnett
Come recitava il titolo del suo primo acclamato disco del 2015, Courtney Barnett certe volte si siede e pensa, ma altre si siede e basta. La costante è quel sedersi, immagine che si sposa bene con la sua musica, un indie-folk figlio di mille madri artistiche e spirituali, non certo rivoluzionario, ma che almeno le ha permesso di uscire dalla nicchia della scena australiana, trovando applausi un po’ ovunque nel mondo anche col secondo album Tell Me How You Really Feel.
Courtney Barnett ha preso tempo per il suo terzo disco. E lo dice
Things Take Time, Take Time (Rough Trade) arriva con la sua solita cadenza triennale, ma il titolo stesso suggerisce che lei di fretta di alzarsi non ne ha poi troppa, perché la sua penna ha bisogno di tempi e spazi larghi. Registrato in patria con l’ausilio della batterista dei Warpaint Stella Mozgawa, anche in veste di produttrice, rinunciando così alla sua band abituale anche in sede di scelte produttive, il difficile terzo disco è il classico prodotto di una artista che ora che sa che là fuori qualcuno l’aspetta con una certa ansia. Può anche permettersi di parlare un po’ più difficile, e soprattutto di parlare ancora più di e a sé stessa.
Il tono volutamente intimista dei testi di queste canzoni si riversa su una struttura sonora scarna e una vocalità poco ammiccante alla melodia, il che rappresenta la sua caratteristica, ma in alcuni casi forse anche il suo limite. Il disco ha infatti una partenza un po’ faticosa, prima che un brano davvero riuscito come Turning Green faccia uscire il tutto dall’atmosfera anticamente lo-fi di brani come Rae Street, Sunfair Sundown o Here’s the Thing. A quel punto l’album nella seconda parte trova un suo equilibrio, ma la scelta di fare tutto da sole (uniche musiciste attive sono lei e la Mozgawa) diventa coraggiosa quanti un po’ penalizzante.
Un album troppo essenziale?
Insomma, se i brani continuano a dimostrare il talento autoriale di Courtney (If I Don’tHear from You Tonight, Write a List of Things to Look Forward To), la produzione non arriva a scegliere se fare di essenzialità virtù o cercare qualche spunto di novità che rimane solo accennato, con un utilizzo dell’elettronica in chiave folk che non solo non sembra più una novità, ma comincia pure a suonare decisamente vintage. La sensazione che rimane, quando le ultime note della bella On The NIght svaniscono, è che questa volta la Barnett abbia pensato solo a sé stessa, lasciando il tutto più vicino ad un demo, e con un atteggiamento anti-formale e minimale alla Jonathan Richman che oggi però non pare più così affascinante. E non è difficile immaginare che un giorno parleremo di questo album come del suo “Period of Transition”, per citare un noto titolo di Van Morrison (una curiosità per chi ama le coincidenze, i due dischi hanno più o meno la stessa frettolosa lunghezza di circa 33 minuti e 50 secondi), che è comunque un lusso che si possono permettere solo gli artisti già maturi e affidabili.
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