Recensione: Cults - HostSynderlin - 2020

I newyorkesi Cults arrivano al quarto disco con Host.

I Cults arrivano con Host al loro quarto lavoro. Gruppo di brillanti newyorkesi, attivi dal 2010, geneticamente riconducibili al generico universo shoegaze, va detto subito che vi aderiscono con un tocco prudente, lieve e sospiroso.

Recensione: Cults - Host
Synderlin – 2020

Il wall of sound che, a torto o a ragione, si associa al genere come tratto distintivo, e che in Static (il loro lavoro migliore, per chi scrive, e quello che stancava di meno) ancora un po’ friggeva, fuso ad eleganti linee di basso, si è così rimpicciolito in Host da diventare il muricciolo su sui sedevano i loro nonni, negli anni in cui il pop era innocente ed il rock più giovane.

Il mondo dei Cults

I Cults, lo si capisce subito, innocenti non lo sono mai stati, e da smaliziati animali da club quali sono, sintetizzano la freschezza del pop del tempo dei pionieri e ne traggono una sofisticata ed ininterrotta suite, fatta di ritornelli facili e ben assestati, per quanto non indimenticabili, parti vocali melodiche e memorizzabili, sebbene un po’ ripetitive e non memorabili (con un uso indiscriminato del riverbero che a tratti fa imprecare). Il loro piccolo e tutt’altro che infinito universo sonoro è una vaporosa e impalpabile nebbia in cui si impigliano ammicchi e citazioni. Un confortevole, e sostanzialmente innocuo, mondo di coolness, privo di spigoli e le cui pareti sono fatte di burro. Un omaggio educato e di buon gusto, oltre che ai sixties, agli anni Ottanta più sognanti.

Le sonorità di Host

Devo aver letto da qualche parte che i Cults avrebbero addirittura affinità con lo Swedish indie. Chi scrive sa a malapena dov’è, la Svezia, e non è in grado di smentire né di confermare, dovrete far da soli; dalla prima all’ultima nota, però, ha avuto la sensazione che lo spirito degli indimenticati e brumosi Microdisney di The Clock Come Down The Stairs e dei delicati e frementi Prefab Sprout di Steve McQuinn (che qualcuno li riabiliti, perdio, entrambi!) aleggiasse con insistenza. Qua e là, qualche tocco d’archi e qualche fiato ben piazzati hanno smosso addirittura il ricordo sanguinante degli Style Council, loro sì campioni di stile e di eleganza, anche quando si allacciavano le scarpe.

 

Nella caligine musicale piuttosto uniforme dei Cults alcuni brani si staccano con più evidenza, perché più rifiniti melodicamente e non perché più originali, da un medio livello di gradevolezza. Mi riferisco all’iniziale Trials e alla seguente 8th Avenue, i due momenti più alti di Host. Il resto, con la sola eccezione della sognante e sospesa A Purgatory, non va al di là di un pur dignitoso intrattenimento. Consigliato a Natale per cinquantenni sentimentali.

Cults - Host
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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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