Eels - Extreme Witchcraft

Extreme Witchcraft è il quattordicesimo album degli Eels: aleggia il manierismo?

Che gli Eels, con Extreme Wichcraft (E Works Records) al quattordicesimo lavoro in studio, continuino ad oliare il loro motore pop-rock con impeccabile precisione, è fuor di dubbio. Che Mr. E sia un sapiente ed abile dosatore di ingredienti, accorto e studiato nel variare la miscela di un songwriting di cui sa bene il rischio di stancare – riuscendo assai spesso, con maestria, ad evitarlo – non saremo noi (che lo amiamo) a negarlo.

Però, in questo ultimo  disco domina la sensazione che lo stralunato alchimista che negli anni Novanta tirò fuori dal cappello Electro-Shock Blues e Beautiful Freak, distillando un succo agro, delicato e ammaliante del proprio dolore, abbia ceduto il posto ad un posato farmacista: la giusta posologia il suo tarlo, l’abilità della ricetta la sua professione.

Non che il sospetto non aleggiasse già insistente sulla produzione musicale recente, per il resto, ad onor del vero, sempre corretta e briosa, mai sciatta e mai irrispettosa del suo pubblico, ma in Extreme Wichcraft la sensazione dolorosa che E lucidi ossessivamente l’argenteria di famiglia per poi riporla una volta di più nel mobile del salotto si fa molto palpabile, quasi solida.

Il buono e il meno buono di Eels – Extreme Witchcraft

Non c’è niente di sbagliato in Extreme Wichcraft, nessuna caduta.  Collocabile nella vena più rock degli Eels, il lavoro non è privo di scatti rock blues (Steam Engine, una delle canzoni meglio riuscite), gronda echi dei Beatles (dei quali What It Isn’t è un riuscito bignami) o di acri melanconie à la Brian Wilson (con le delicate melodie pop di Stumbling Bee, ma anche di Learning While I Lose e di So Anyway, altro piccolo gioiello).

Nulla di sbagliato dunque, ma nulla di veramente giusto in Extreme Wichcraft. Non manca il rock appena sporcato di grunge (con Amateur Hour, Better Living Through The Destination e con Good Night on Earth), non mancano le strizzate d’occhio funk (The Magic) e qualche scoppiettante ed innocua allusione hip-hop, disseminata qua e là. Non manca, insomma, niente, per tornare una volta di più dove gli Eels ci hanno portato tante volte in passato. Soltanto sembra di essere arrivati alla fine della fiera, e, quel che è peggio, la bacchetta d’incantatore di E, che non fa cilecca e non si inceppa, svela un po’ troppo i trucchi, e non ci si diverte più come un tempo.

Extreme Witchcraft: un’occasione persa

Colpa nostra, forse. O colpa, se colpa c’è, di un meccanismo musicale il cui miracoloso equilibro fra sostanza e forma è andato perdendosi lungo strada, a tutto vantaggio di quest’ultima, peraltro sempre, sia detto a merito degli Eels, lucente ed impeccabile.

Non bastano neppure la solida robusta chiusura di I Know You’re Right, che pure si imprime, né la consumata regia di un artista che ha imparato negli anni fin troppo mestiere, a dissipare un senso di stanchezza diffuso che si trasforma presto, in chi, come noi, si era fatto portare per mano in un poetico ed incantato circo di freaks e di scalatori della luna, nella moderata ma innegabile delusione dell’occasione perduta.

Eels - Extreme Witchcraft
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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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