Il ritorno degli Einstürzende Neubauten.
‘Nuovi edifici che crollano’. All’ingrosso così si può tradurre il nome dell’ensemble costituito nel 1980 a Berlino da Blixa Bargeld e N.U. Unruh. I “Neubauten”, cioè quegli edifici che sorsero in fretta e furia come funghi in piena ricostruzione nella Germania distrutta, dozzinali e posticci, esorcismo mancato di una ferita storica destinata a sanguinare per decenni e di una ingannevole promessa di progresso. Sta già tutto qui, nella scelta di un nome premonitore di strapiombi, il destino di un gruppo che nasce nel cuore gelido dell’Europa divisa e nel segno del rifiuto programmatico di ogni facile ottimismo sonoro, dell’azzeramento e della deformazione grottesca di ogni senso comune musicale.
Rumoristi, industriali, decostruttivisti, eversivi alla nascita, i Neubauten hanno conosciuto molte stagioni, mai prigionieri della loro foto di gioventù e del loro proverbiale campionario di martelli pneumatici, lastre e bidoni (da cui hanno tratto le raffinate architetture musicali dei loro anni di industrial estremo), digerendo ogni detrito incontrato per strada per trarne in ultimo un art rock sfrangiato e corrotto, dissonante e decadente (si dovesse azzardare un parallelo “colto”, vengono alla mente i nomi di Korngold e Křenek).
Einstürzende Neubauten – Alles in Allem
Alles in Allem ritrova gli Einstürzende Neubauten per l’appunto in quei paraggi in cui li avevamo lasciati e ci pare che sia – ma sarà il tempo a confermare o smentire – una sintesi magistrale di quarant’anni di apocalissi urbane e di vertigini dell’anima (“tutto sommato” suona in italiano il titolo, ben significativo, del disco), a dodici anni dall’ultimo vero lavoro in studio e otto anni dopo l’epopea bellica di Lament. A proposito di questo ambizioso e forse non in tutto riuscito affresco sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale scrisse Eddy Cilia, e non si saprebbe dirlo meglio, che i nostri si trovano ad “abitare un mondo plasmato da Nick Cave”.
Influenze e intrecci
Innegabile che i vent’anni di simbiotica e reciproca influenza fra Cave e Bargeld si avvertano eccome e non mancano i rintocchi del king ink più cupo e percussivo, fra Henry’s Dream e Let Love In. E, in direzione opposta, una volta di più si ha modo di apprezzare quale essenziale contributo abbia dato Bargeld alle sonorità dei Bad Seeds.
Gli Einstürzende Neubauten di Alles in Allem però continuano a muoversi in noncurante e scorbutica solitudine, fra litanie apocalittiche, spezzoni di Kabarett berlinese (la splendida Alles in Allem, impreziosita da un harmonium che evoca le atmosfere funeree e raggelate della Nico di Desert Shore, non sarebbe dispiaciuta a Kurt Weill), lirismi accartocciati (la quasi ballata Seven Screws e la morbida – per gli standard dei nostri – Möbliertes Lied) e frammenti di un discorso politico interrotto (quella Am Landwehrkanal che rievoca la morte di Rosa Luxemburg e che ai primi ascolti ci è parsa musicalmente la traccia meno forte del lavoro).
Le atmosfere create dagli Einstürzende Neubauten in Alles in Allem
Si astengano nostalgici del tempo che fu: quel tempo è andato, da tempo, e non ritornerà, per noi, per loro, per tutti. Alles in Allem è intessuto di atmosfere percussive ed ipnotiche (l’iniziale Ten Grand Goldie, Wedding e Ganzer Damm su tutte) ma ci troverete più archi, vibrafoni e organo che rumore e linguaggio delle macchine: la magistrale Zivilisatorisches Missgeschick è, in questa direzione, pur nell’arrotondamento dei suoni, l’eco più avvertibile del lontano passato industriale, in cui brilla con forza la mai dimenticata lezione di grandi maestri, da Shneider e Hütter ai Faust, che incombe, peraltro, sull’intero lavoro.
Su tutto, resiste e domina un declamato che si fa a tratti vero e proprio canto, come nella title track, a tratti salmodia, come in Tashen, in cui archi e tamburi riempiti di stracci saldano presente e passato del gruppo. Su tutto, Bargeld, che, straordinario trovarobe e rabdomante della modernità, a cavallo fra la Nico più austera, il David Bowie di The Man Who Sold The World (si ascolti la conclusiva, in ogni senso, Tempelhof e la si confronti con l’atmosfera di desolata apocalisse di After All) e la scavata teatralità à la John Finn’s Wife di Cave, si ostina, per nostra fortuna, a suonare i rintocchi funebri di un tempo e di un’epoca – i nostri – in cui “la disperazione è anche un viaggio nella luce” (Alles in Allem).
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