Baz Luhrmann - Elvis

Elvis Presley nel racconto visionario di Baz Luhrmann

Iniziamo così, dall’ovvio, per parlare di Elvis di Baz Luhrmann. È il colonnello Tom Parker che  racconta e narra. E, secondo copione, il predatore olandese dal passato inconfessabile, cresciuto all’ombra dei baracconi e dei circhi del Sud, che non fu mai né colonnello né Parker, mente convinto di dire il vero; inganna, ma per essere di aiuto; imbonisce, misericorde mescola le carte, ma per lenire il dolore e per il bene supremo di tutti noi, posteri adoranti di un re bianco che voleva la pelle nera.

La deformazione del tempo e della storia di Elvis Baz Luhrmann l’affida alla voce di Parker, affondato nei panni bolsi di Tom Hanks, che chi scrive non si ricorda tanto innamorato di sé dai tempi di Forrest Gump, e che sembra spiarsi ogni momento allo specchio, per sorprendere la cravatta storta o l’espressione falsa. Chissà in quanti avranno già scritto “irriconoscibile”, come se fosse un pregio o, peggio, un merito.

L’artificio è vecchio come il mondo; una lettera ritrovata, un manoscritto nella bottiglia: espedienti che aggiungono e tolgono al vero, liberano le mani ai burattinai delle trame e degli intrecci (e qui sta la massima abilità di Luhrmann, ben più che nelle colonne sonore accalappianti o nelle immagini grondanti lustrini).

Elvis e il colonnello Parker

E allora, proviamo a leggere Elvis come finzione vuole. Attribuiamo al colonnello Parker mistificazioni, invenzione di nessi, omissioni, cause ed effetti, come Luhrmann vuole, allontaniamole dal regista, artefice e co-sceneggiatore. Rispettiamo la finzione, perché la finzione chiede d’essere rispettata. A maggior ragione, con Elvis.

È l’ovvio, si sa, ma si abbandonerà così l’impegno agonistico al controllo dei dati e delle date, con i libri, o con qualcosa di peggio, alla mano; per chi vuol sapere davvero, c’è (almeno) la biografia insuperata di Peter Guralnick, che ed Elvis Aaron Presley ha dedicato anni di passione (due volumi splendidi, non tradotti purtroppo, Last Train To Memphis: The Rise Of Elvis Presley e Careless Love: The Unmaking Of Elvis Presely). Per tutti, noi compresi, oggi c’è Elvis, con gli abituali inserti a fumetti cui Luhrmann ci ha abituato (e che ci paiono più fiacchi che altrove), gli abiti grondanti colore e con la notevole, quella sì, opera di autoconvincimento ed immedesimazione anche vocale dell’azzeccato prim’attore, Austin Butler.

E allora dove batte il cuore di Elvis? Nel carisma fino all’ultimo indomito e luminescente di Elvis Presley, il secondo nato nella baracca di Tupelo, nella sua matrice falsa e vera di leggenda di latta, fatta dei palchi di provincia, dei sandwich fritti alla banana e al burro di arachidi, e delle ribalte di luci accecanti, stelle filanti e cartone di Las Vegas. Nella voce di Elvis, che dagli anni Sessanta in poi si screzia di ogni sfumatura e si raggruma attorno ad ogni puntura d’emozione, segreto non trascurabile del suo destino di durare.

Per carità, non vada a vedere Elvis di Luhrmann chi lo crede un docufilm, chi sbava all’idea di un biopic. Luhrmann non smonta né demolisce il mito, non ha la pazienza entomologica del documentarista. Lurhmann non chiede che di sacrificare al mito, far parte del mito, contribuire al mito con un verso. Forse anche, potrebbe dire qualche mal pensante, contribuire al marchio, con furbizia, e più di qualche nota di conformistico bon ton. Ed è ben disposto a scherzare coi santi, coi santini e a sparare sui morti, dall’edipica Gladys al fragile Vernon. Meno, molto meno, ha voglia di scherzare coi vivi: non si abbia a innervosire troppo Priscilla, lo si capisce subito, e lo si capisce bene, anche.

La parte ‘biografica’ del film Elvis

Ed allora troverete ascesa e caduta; ultimi treni da Memphis; povera America rurale (ma devota, tanto devota a Gesù); scintillanti grattacieli di Las Vegas (per sempre Viva!), slot machine droga di Tom Parker, e abiti rilucenti, mosse seducenti, pillole e dollari sparsi al vento, neri salmodianti e che sempre pregano o cantano, Bob Kennedy e Martin Luther King (morti), Nixon no, né morto né vivo, non abita il coerente universo del regista australiano.

Giacché nel film non ha poca parte, come giusto, il comeback special del 3 dicembre 1968 che restituì Elvis al mondo più nero di prima, e siamo, anche se non sembra, a parlare di musica, una modesta proposta, per chi Elvis non lo ha mai amato, o lo ama da poco, o è disposto ad amarlo per un po’ di tempo: l’edizione deluxe del ’68 Comeback Special: 7 dischi, 80 pagine di libretto, il documentario The Searcher, ma soprattutto mille e mille prove, tentativi, battute, risate. Gronda di umanità, di sofferenza, di vita e dedizione. Perché il pubblico ricorda ed ama colui che il pubblico rispetta ed ama, e, pur sbandando, non tradisce, ed ancora sorride felice, nello sforzo deformante e sovrumano della straziante Unchained Melody che sigilla il film di Luhrmann come la tomba di un faraone.

Presley perenne presenza del nostro immaginario

Non diremo, con Lester Bangs, che Elvis ci ecciti il sangue del sesso, ma il suo armamentario codificato di gesti, azioni, ammicchi, la sua tempesta perfetta di successo ed autoerosione, sono il paradigma del successo e della sua dispersione, della creatività e della sua confusione, una volta per tutte, nella nostra modernità di cartapesta, con i suoi dei di gesso e stucco, che si lasciano adorare davanti ad altari di dollari.

E se questo è il mondo che abbiamo in sorte, e di questo ci dobbiamo contentare, Elvis, quasi mezzo secolo dopo, ancora ne governa l’immaginario e ne naviga i flutti, Giove gonfio di quaaludes e di bacon, icona tragica della propria sconfitta e della propria solitudine di bambino infinito, sorriso eternamente giovane della propria innegabile vittoria, burattinaio rimasto solo dopo la festa, voce che non vedremo mai morire, sotto le luci di Las Vegas.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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