Solo grandi temi e grandi suoni per Father John Misty in Mahashmashana.
Se dieci-quindici anni fa era un giovane uomo con molte pensantezze nell’anima e nel corpo, il problema del Father John Misty/ Josh Tillman oggi quarantunenne è che si piace troppo. Si piace sia con il nome d’arte sia con il nome vero, gioca con le due identità, le mischia, le mette persino in pericolo (figurato), per poi arrivare sempre alla stessa conclusione: “Come sono bravo”. Anzi “come siamo bravi”. Va detto che la bravura indiscutibilmente c’è , dimostrata dalla capacità di gestire stili diversi come compositore, dall’ottimo fraseggio come cantante, dal bell’equilibrio fra l’elusivo e l’aspro come liricista. Eppure manca qualcosa e forse, ascoltando Mahashmashana, si capisce, più che in passato, di cosa si tratta.
Ci troviamo davanti a un lavoro monumentale e sontuoso da parte di un artista che l’anno scorso ha eseguito con successo al Barbican di Londra le impegnative canzoni di Scott Walker accompagnato dalla BBC Symphony Orchestra. Pure quella deve essere stata una bella ricarica alle batterie dell’autostima, come appare chiaro sin dalla title track collocata in apertura di album con la sua grandiosa musica orchestrale a metà fra Scott Walker, appunto, e Harry Nilsson. Mahashmashana significa in sanscrito “grande luogo di cremazione” e il testo tratta il tema del passaggio da questa vita all’aldilà. Tutto molto serio e molto ben architettato, anche se dopo 9 minuti e 20 secondi si percepisce una certa mancanza di sintesi.
Mahashmashana: pregi e problemi
Ecco già qui uno dei problemi del disco, che poi è quello di tutta l’opera di FJM/JT, ovvero prendersi un po’ troppo sul serio e, di conseguenza, non avere grande senso della misura (ci sono comunque miglioramenti rispetto al precedente Chloë and the Next 20th Century). Lo si percepisce anche nel resto del programma, che punta sovente alle atmosfere jazz-noir da colonna sonora anni ‘50 care all’artista, ad esempio in Josh Tilman and the Accidental Dose, Being You o Mental Health, sempre belle come melodie, sempre vagamente prolisse e, altro problema, sempre un po’ troppo pensate.
L’eccesso d’intenzione si percepisce anche in Screamland, con quel ritornello dai suoni sovraccarichi che, pur interessante (c’è di mezzo Alan Sparhawk) pare essere lì più che altro per amor di stranezza. C’è un cambio di registro in I Guess Time Makes Full of Us All che suona vitale e guizzante, però va detto che guizzare per otto minuti e mezzo (tale è la durata) sarebbe risultato faticoso anche per il miglior Van Morrison. Bella senza riserve è Summer’s Gone, per voce e orchestra e solo 4 minuti di lunghezza, intanto però siamo a fine programma e il doppio ego di Father John Misty / Josh Tillman è ancora bello vigoroso nonostante i tentativi di cremazione dell’uno o dell’altro che ogni tanto paiono balenare nei testi.
Il futuro di Father John Misty/ Josh Tillman
Siamo dunque di fronte a un musicista di grande talento e intelligenza che continuerà a fare dischi buoni, magari ottimi, ma che difficilmente arriverà al capolavoro. Per quello ci vuole una capacità di lasciarsi andare, di mettersi in gioco che non pare nelle sue corde (anche se ci si era avvcinato ai tempi del sofferto I Love You, Honeybear). E se gli procurassimo un po’ di perdita dell’autostima dicendogli che nell’aspetto ricorda il buffo cantante italiano Jovanotti?
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