Imarhan – Aboogi

Da Tamanrasset, Algeria, gli Imarhan con l’eccellente Aboogi.

Gli Imarhan, qui al loro terzo disco dopo l’esordio del 2016, rappresentano la generazione successiva a quella dei Tamikrest e dei Tinariwen, in particolare questi ultimi ne hanno accompagnato la crescita artistica, partecipando anche ai loro dischi. Gli Imarhan appartengono all’etnia tuareg, ma al contrario dei due gruppi prima citati che vivono nel convulso e drammatico Mali, sono a Tamanrasset nel sud dell’Algeria, una zona più tranquilla nella quale hanno costruito, tra mille difficoltà,  il primo studio di registrazione della città al quale hanno dato il nome di Aboogi che indica le abitazioni tuareg che hanno dato vita ai loro primi villaggi stanziali. E sempre Aboogi è il titolo dato a quest’ultimo lavoro (City Slang). Queste differenze, compresa quella di età, si riflettono nella personale interpretazione del blues del deserto degli Imarhan. Il loro è infatti un sound più urbano, che esprime le esigenze e la voglia di vivere della gioventù del luogo. È una musica che si caratterizza per un’apertura ad altri generi musicali, indie rock, folk, songwriting, ma restando fedele alla lingua, alle tradizioni, alla cultura del proprio popolo.

World music nel senso migliore del termine

Rispetto ai precedenti lavori questo è più riflessivo e crepuscolare e con un più accurato lavoro sulle linee melodiche. Il senso di malinconia e nostalgia ne caratterizza l’atmosfera, accentuata dalle performance di Sadam e delle altre voci che lo accompagnano, tutte dal forte impatto emotivo. Una traccia come la dolente Taghadart in cui Sadam è accompagnato dalla voce accorata, emozionante della sudanese Sulafa Elyas, nostalgica e sentimentale come in un fado, o come la conclusiva Adar Newlan che fra ritmi caracollanti, battiti di mani, vede il canto in gallese di Gruff Rhys dei Super Furry Animals incrociarsi magnificamente con quello di Sadam e di un coro femminile, dimostrano come davvero la musica degli Imarhan abbia raggiunto un livello di universalità e una capacità di coniugare tradizione e modernità davvero eccelso.

Con Aboogi gli Imarhan hanno realizzato il loro lavoro più bello

Ma ogni brano suscita emozione e meraviglia. Il disco si era aperto con Achinkad, storia metaforica di una gazzella costretta a scappare dalla propria terra: l’inizio è sommesso e doloroso fino all’irrompere esplosivo delle chitarre e dei canti berberi, le percussioni accelerano in un crescendo drammatico e avvolgente.

Altri brani sono più legati al desert blues.Tamiditin vede come ospite il poeta e cofondatore dei Tinariwen Mohamed Ag Itlale, qui in una delle ultime interpretazioni prima della scomparsa, che con la sua voce roca e profonda colora il brano di note di dolorosa consapevolezza. In Tindjatin un altro Tinariwen, Abdallah Ag Alhousseyn, rievoca insieme a Sadam la battaglia che segnò una pesante sconfitta per il loro popolo. Ci sono poi le disperate  atmosfere di Temet, i sognanti synth di Asof, la palpitante Assossam, l’affascinante e sublime solennità di Imaslan N’Assouf con chitarre psichedeliche ed evocative. Con Aboogi gli Imarhan non solo hanno realizzato il loro miglior lavoro, ma aprono prospettive sempre più interessanti al rock subsahariano sulla strada di contaminazioni che lo arricchiscono senza fargli perdere il profondo legame con la tradizione blues e con la propria comunità.

Imarhan – Aboogi
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Nato nel 54 a Palermo, dal 73 vive a Pisa. Ha scritto di musica e libri per la rivista online Distorsioni, dedicandosi particolarmente alla world music, dopo aver lavorato nel cinema d’essai all’Atelier di Firenze adesso insegna lettere nella scuola media.

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