Playing è l’omaggio di Ivan Wildboy ai suoni del Delta.
Ogni artista ha i suoi “suoni nel cassetto” e il nostrano Ivan Wildboy, già trattato da queste parti con il suo trio e lancinanti furori rock (a-billy ma non solo), ha deciso dopo una carriera che vanta già ben trenta candeline, di aprirlo e regalarci con Playing (Wild Horses Recordings) un labour of love di raro pregio.
Ci si scordi quindi di American Graffitizarci, qui il linguaggio, e che linguaggio e che lignaggio, si fa melmoso, swampico perfino. Insomma, siamo in pieno Delta per quanto concerne i suoni, ma con alcune soprese invece rispetto ai titoli.
La chitarra di Ivan tratteggia il blues attingendo a quegli afrori che vedono armoniche a bocca intinte nel whiskey, chiatte che attraversano salici piangenti, sgangherate sediole dalle quali Robert Johnson, Blind Lemon Jefferson e altri padri fondatori lo osservano benevoli, chi dall’alto dei cieli e chi, per via di certi crocevia, dal caldo ormai concorrenzial con il pianeta.
Le canzoni di Playing
Tutto in questo disco contribuisce ad elevar le temperature, dai primordiali suoni stomp dell’iniziale Open Arms Blues, dove il catrame ricopre finanche la voce, al languore slide di Feelin Bad, con Ry Cooder dietro l’angolo avendola scritta…, alla rendition cupissima della beatlesiana Come Together, probabilmente molto simile alle intenzioni di Lennon. Seguono Joy, musica per falò in mezzo ad una mesa desolata, la delicata Humble Me, la lynchiana Six Strings Down, che Badalamenti avrebbe amato omaggiar, per arrivare alla Hurt resa nota da Johnny Cash nella sua versione Rick Rubinizzata ma che, si rammenti, era brano di Trent Reznor con i suoi Nine Inch Nails, e che qui riesce nuovamente a porre mano ai fazzoletti.
La radici rock’n’roll marca Sun Records tornano ad affacciarsi in Long Way Home che porta la firma di Tom Waits. Par addirittura di sentir Roy Orbison in That Lucky Old Sun e ci si pasce in I Wish I Was In New Orleans (anch’essa a firma Waits) per riaffacciarsi ai devoti lidi della nota St. James Infirmary, qui resa suadente rispetto a versioni meno accomodanti. Si conclude con una Ensueno of Free Love da brividi in cui si riaffacciano gli studi canori come controtenore (quelle che un tempo eran le voci bianche ma credo gli attributi Ivan li abbiam ancor tutti…) e che fa fremer e tremar…
Dieci covers e due composizioni originali che paiono esser tutte farina del sacco dell’esecutor, che altro dire se non keep on playing Ivan.
Insieme al lavoro di Stella Burns (che vedrei bene collaborar con Mr.Wildboy…) uno dei migliori dischi su piazza per chi ama atmosfere altre e ultimi bagliori del crepuscolo.
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