Ecco cosa attendersi dal nuovo disco di James Blake: Playing Robots Into Heaven.
“It follows the critically acclaimed Friends That Break Your Heart and will see James return to the electronic roots of his Hessle, Hemlock and R&S records days”. Playing Robots Into Heaven (Republic – Polydor), sesto album di James Blake, esce (domani, 8 settembre) accompagnato da questa semplice frase di lancio. È davvero così? Il percorso compiuto dall’artista inglese in effetti l’ha condotto nel giro di qualcosa meno di quindici anni a un nuovo cantautorato elettronico, abbandonando – tranne qualche sprazzo – gli esordi UK basspost-dubstep di CMYK e Klavierwerke. Nel 2019, con Assume Form ha raggiunto il suo picco commerciale, ma nel 2021 il successivo Friends That Break Your Heart ha registrato un calo, il che probabilmente qualche insoddisfazione l’ha procurata, insieme a questa label di “sad boy” che ormai lo accompagna da tempo.
James Blake lascia spazio alla sperimentazione
Playing Robots Into Heaven parte senza che la voce di James Blake appaia riconoscibile, pesantemente filtrata nell’iniziale Asking To Break, alla quale segue il singolo Loading, che unisce il pop malinconico della produzione recente con un drumbeat midtempo che conduce bene la canzone. È una bella riuscita. Lo slogan di lancio viene illustrato da Tell Me con i suoi schizzi di elettronica da rave pacato. Fall Back è una bella traccia electro-dance, con la voce che fa capolino ogni tanto in un loop. He’s Been Wonderful incorpora un sample soul e per il resto gioca con un’elettronica geometrica. Davvero James Blake sembra tornato nella stanza da dov’è partito con i suoi gadgets più che in uno studio di registrazione.
Big Hammer è un’altra traccia centrale, pure scelta per rappresentare il disco prima dell’uscita, ma senza la voce di Blake, che preferisce incorporare voci giamaicane. Poi c’è la notturna I Want You To Know nella quale l’autore torna a cantare. È un brano che arriva bene subito e uno dei momenti migliori di Playing Robots Into Heaven. Night Sky continua le medesime atmosfere con minore efficacia, ma qualche eco dell’ambient Bowie-Eno non può che far piacere (magari il recente esperimento Endel qualcosa ha contato). Con Fire the Editor siamo di nuovo nell’ambito della canzone quasi tradizionale, se tale si può considerare il beat con carillon e la voce di Blake che trova di nuovo la sua centralità, sebbene accompagnata da echi ed effetti. Molto bella.
La conclusione
If You Can Hear Me è una ballata pianistica nella quale James Blake dialoga a distanza con suo padre, prima della conclusione con la title track Playing Robots Into Heaven, ambient solo strumentale. La frase di lancio non mente, anche se non dice tutta la verità. Quanti amano il James Blake più da ballata malinconica troveranno qualcosa anche in questo disco, che però mi pare anche in grado di imprimere una svolta necessaria per uscire da una gabbia che cominciava a stargli stretta.
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